La Biennale del 24
per la prima volta dal lontano 1956 ho rinunciato a visitare la Biennale di Venezia, per ragioni soggettive e oggettive. Ora sono ridotto molto male, e come l’anno scorso, avrei dovuto viaggiare tra i padiglioni in carrozzella, sospinta da mia moglie. Ma non pare che io abbia perso molto, da amici che se ne intendono ho sentito dire che è una delle peggiori edizioni di tutta la sua storia. Io posso limitarmi a criticare il titolo dato dal curatore, Adriano Pedrosa, Stanieri ovunque. Se si riferisce alla nozione di straniamento, sappiamo che è un ingrediente fondamentale per ogni opera d’arte, che non può non essere “straniante” rispetto a ogni convenzione, Era quella nozione che Michel Tapié indicava con l’uso particolare dell’aggettivo francese autre. Ma se Pedrosa si vuole riferire a una estraneità rispetto ai modelli ufficiali dell’arte dominante e intende invece recuperare forme resistenti, legate a vecchi riti e patrimoni, sbaglia completamente, pare che ignori del tutto la nozione di glocalismo, in cui si fonde l’accettazione universale, globale, delle modalità più avanzate dell’arte occidentale messe in voga dalla rivoluzione del 68, ready made, videoarte, performance, con la possibilità di adattarle a un recupero delle proprie origini. Io mi sono permesso di accennare ad alcuni casi dominanti di questa sintesi fondamentale nel mio saggio Protagonisti, di cui alcuni erano del tutto degni di figurare nel Padiglione centrale ai Giardini, penso a un connazionale come lo stesso Pedrosa, al brasiliano Nieto, e a Tomàs Saraceno, argentino, e poi ci sarebbero, sempre a rimanere nel continente americano , la colombiana Salcedo e il cubano Kcho, fari, casi eccellenti della produzione attuale. Mentre, mi pare, Pedrosa è andato a recuperare soluzioni indigene, magari pure accompagnate da un buon colorismo e da una grafia intrigante, come succede a tutte le forme retrograde, ma è poco, è tradire il carattere dominante dell’arte di oggi. Il Padiglione centrale di S.Elena dovrebbe proporre dei fari-guida, e non dei passi indietro, seppure giustificati da nobili intenti di recupero di valori trascurati o addirittura repressi dal progresso, che in definitiva esiste pure in arte, e proprio il cuore della Biennale dovrebbe offrire una guida sicura in questo senso, mentre l’attuale edizione non lo fa, seppure con le migliori intenzione ideologiche, ma si sa bene che di queste è lastricato il sentiero che conduce agli inferi, cioè ai recessi della storia.