Ieri, sabato 19 gennaio 2019, ho compiuto una visita molto confortante, e proprio “de visu”, alla Sala Farnese del Palazzo d’Accursio di Bologna, dove è allestita una mostra di Massimo Kaufmann (1963). Al di là della portata di questa comparsa sostanziosa dell’artista, su cui vado a dire tra poco, mi compiaccio perché si realizza un progetto su cui insisto da tempo, avendogli anche trovato un titolo che mi sembra spiritoso, di istituire un GAMbo in alternativa al MAMbo (Museo dell’arte moderna di Bologna), lasciando a quest’ultimo il compito di gestire l’arte recente, diciamo grosso modo dal 2.000 in poi. Quanto alla sede nobile del d’Accursio, bisogna riconoscere il merito dell’ex-sindaco Guazzaloca di averlo sottratto alle destinazioni burocratiche facendo erigere un secondo municipio fuori dal sacro recinto delle mura, anche se, affidato al suoi architetto di riferimento Cuccinella, ne sono venuti dei padiglioni alquanto frivoli e fragili, degni di una località balneare più che di una città di antica prosapia come Bologna. Ma l’intenzione era buona, e dunque occorreva estendere alla Sala Farnese i già presenti, al secondo piano dell’edificio, Museo Morandi e Collezioni comunali d’arte, stabilendo così un eccellente percorso che da Cimabue si poteva estendere fino alle opere ormai storicizzate di tutto il ‘900, visto che si può disporre pure della sottostante Sala d’Ercole. Sarebbe un complesso formidabile, e posto nell’ombelico della città. Ma invece di seguire questa pista di eccellenza, si è aggravata la relativa penuria di spazio del MAMbo infliggendogli pure la raccolta Morandi che ne toglie quasi per intero quanto dovrebbe essere riservato alle collezioni permanenti.
Ma torniamo all’attuale apparizione di Massimo Kaufmann in Sala Farnese, che avviene nel segno della precarietà, visto l’incerto destino di quello spazio, con la posa di pannelli a dittico, trittico, polittico, autoportanti, peraltro appropriati alla pittura del nostro artista, che appartiene a quel gruppo emerso soprattutto a Milano, alla metà degli ’80, ponendo fine alla stagione che per l’ottusità mentale dei nostri critici si continua a intestare alla sola Transavanguardia, dimenticando che i due capofila della situazione nata agli inizi dei ’70 erano stati Ontani e Salvo, da cui si sarebbe sviluppato il fenomeno dei Nuovi-nuovi. Accanto a Kaufmann, ci furono Stefano Arienti, che alla lunga è risultato il vincitore, il più presente e riconosciuto, ma con accanto Umberto Cavenago, più ondivago, e pure un valido Mario Dellavedova, e altri ancora. Io non avevo perso tempo, e già nel ’90, trovandomi commissario dell’”Aperto” alla Biennale di Venezia del ’90, vi avevo invitato i primi due, non però Kaufmann, il cui profilo mi appariva alquanto sfuggente. In seguito mi aveva interessato quando presentava degli enormi fantocci in similpelle, imbottiti di un ripieno di pesi, di quelli che si collocano sui piatti di una bilancia. In seguito l’artista si è alquanto stabilizzato, pur sempre frugando all’interno di un corpo umano squarciato, ma per estrarne campioni di tessuto, da istologo accanito, oppure, come succede per riti carnevaleschi, una pioggia di coriandoli variopinti. Come dire che il nostro artista si è dato a coltivare un’astrazione geometrica, ma praticata in modi estrosi e liberi, non col rigore, da scolaretti compunti e diligenti, quale compare in personaggi pur affermati come Dorazio, Verna, Griffa. O se si vuole, diciamo anche che Kaufmann gareggia con gli stilisti della moda nell’intento di apprestare un campionario stagionale di tessuti, a barre, righe, strisce, o al contrario con ricorso a un bombardamento, a una pioggia di annotazioni cromatiche pungenti, come punture di insetti. Siamo in bilico tra natura e artificio. Per un verso questa apparizione in sala di tanti pannelli sembra voler sfidare Monet e la sua straripante epifania di Ninfee, ma per altro verso è come se Kaufmann raccogliesse le schiume, le spume che inquinano i nostri corsi d’acqua con le scorie delle industrie. O invece tenta di stabilire come un planetario per invitarci a contemplare i pulsanti misteri delle costellazioni? Si viaggia insomma in una stuzzichevole ambiguità di proposte e soluzioni. Ma soprattutto piace vedere che la Sala, il più delle volte condannata a una austera e cipigliosa austerità, a questo modo si rianima, si fa viva e pulsante.
Massimo Kaufmann, Mille fiate, a cura di Giusi Affronti. Bologna, Sala Farnese, Palazzo d’Accursio, fino al 3