Credo di aver già manifestato tutto il mio apprezzamento per la ricchezza di iniziative relative all’arte d’oggi di cui sta dando prova il Comune di Firenze, “risalito”, è il caso di dire, a un ruolo di prima importanza proprio grazie a Sergio Risaliti, il critico-curatore cui si deve questo rilancio, A suo tempo però non gli ho fatto mancare forti riserve, considerandolo tra i massimi responsabili del fenomeno che bollo con la crasi di “Celantabo”, quella falsa e nociva tesi per cui dal ’68 e per un abbondante decennio da noi si sarebbe avuto il dominio congiunto di Arte povera e di Transavanguardia. Come se si fosse detto a suo tempo che una analoga ricchezza di eventi artistici negli anni Venti del secolo scorso fosse da ascrivere soltanto a “Valori plastici”, o a “Novecento”, trascurando tanti altri apporti. E dunque ho criticato severamente una mostra curata proprio da Risaliti alla Fortezza del Belvedere, dedicata all’”Ytalia”, con la civetteria di recuperare quella ipsilon di provenienza incerta, ma già apparsa in un sorprendente affresco di Cimabue. Mi ero affrettato pure a commentare che quell’Italia, con Y o no, così conformista, non era il mio Paese, allo stesso modo di come in quei giorni negli USA molti erano soliti dichiarare solennemente che Trump non era il “loro” presidente. Ora però, con molta meraviglia, devo constatare che Risaliti impiega l’ampia serie di spazi di cui dispone per celebrare l’artista inglese Jenny Saville. Una scelta del genere non mi va bene, fra l’altro mi sembra diametralmente opposta all’ossequio di certi valori ufficiali fino a questo momento coltivato dal nostro curatore-principe. A disturbarmi non è certo il fatto che la Saville sia un’artista di stampo figurativo, e donna, io stesso, nella mia tardiva ripresa di pittore, sono figurativo, e ovviamente saluto col massimo rispetto i riconoscimenti che ora si rendono all’altro sesso. Ma il guaio è che la Saville è una perfetta continuatrice di Lucien Freud. Il quale a sua volta ha il torto di rilanciare un figurativismo di specie ottocentesca, con volti e corpi portatori di strazio, di malattie, di cicatrici di varia natura e provenienza. Niente in comune con la sottigliezza di cui sa dare prova l’antagonista Francis Bacon di scavare nei demoni del nostro inconscio, facendone aggallare immagini sorprendenti, di felice invenzione, di magistrale stesura. E dietro di lui ci sono seguaci in grado di procedere con la stessa leggerezza, stilizzando i corpi, magari stravolgendoli, ma con mosse eleganti, da arti marziali, per così dire, e non con pesanti mazzate degne di un mattatoio o ustioni, ferite che lasciano il segno. Insomma, non dobbiamo riprendere un’eredità da Courbet, meglio lasciarlo intatto a dominare l’ Ottocento, ricorriamo piuttodto gli agili processi di stilizzazione di cui sono capaci un Alex Katz, un David Hockney, i quali nelle loro indagini sul nostro fisico non scordano quanto ci suggerisce una presa sul reale come quella fornitaci dalla fotografia, o comunque il viaggio a ritroso, nei meandri e recessi della condizione umana, viene condotto secondo parametri in linea con la nostra attuale società fondata sui media, rispetto alla quale un mimetismo dei nostro giorni può svolgere un controcanto, ma non un atto di totale rifiuto, fino a indietreggiare a soluzioni di vecchio realismo, gravido di ferite, di corruzioni della pelle, come quelle di cui la Saville è senza dubbio abile evocatrice. Si possono senza dubbio recuperare i valori del pittoresco, dell’epidermide, ma tenendosi accanto un corretto manuale delle soluzioni fornite da una cultura di specie Pop. Se si vuole, populismo sì, ma non di bassa lega, tale da indietreggiare verso cupi scenari ottocenteschi, bensì venuto a un abile compromesso con modalità più leggere, più eleganti. Corpi vestiti, magari anche secondo la moda, e non squallidamente ignudi.
Jenny Saville. Firenze, Museo del Novecento, Palazzo Vecchio, Ospedale degli Innocenti e altre sedi, fino al 20 febbraio.