Sono reduce dalla lettura del romanzo di Helena Janeczek, “La ragazza con la Leica”. Dico subito che ne ho riportato un’ottima impressione, tanto da farmi asserire che quest’opera avrebbe potuto vincere indifferentemente uno qualunque dei tre nostri premi maggiori, lo Strega, su cui tra poco, attraverso due “pollici” affidati all’”Immaginazione”, comparirà la mia valutazione che perfidamente capovolge l’ordine d’arrivo della cinquina. E avrebbe potuto vincere pure il Campiello e il Viareggio, su cui si possono leggere qui stesso i miei giudizi. Del resto mi ero già espresso favorevolmente anche a proposito del romanzo precedente di questa scrittrice, “Le rondini di Montecassino”, del 2010, giudizio espresso su “Tuttolibri”, da cui poi sono stato espulso, e il modo ancor m’offende. Da notare una certa fedeltà della Nostra a uno schema, che però, ovviamente, nei due casi, viene riempito di circostanze e personaggi che non potrebbero essere più diversi. In quella prova precedente all’origine di tutto c’era un evento storico straordinario, di portata epica, quasi leggendario, l’assedio di Montecassino e della sua Abbazia, difesa coi denti dalle truppe tedesche, assediata, aggredita dagli Alleati, con un miscuglio di etnie, dai polacchi agli statunitensi ai canadesi. Se Montecassino era il faro su cui ruotava tutta la vicenda, esso però risultava avvolto in una vasta coperta intessuta di valori comuni. Infatti a quella fonte, come a una Mecca, ritornavano sia i pochi superstiti di quegli scontri, sia soprattutto eredi, figli, parenti, o anche solo estimatori, giovani desiderosi di misurarsi all’altezza di quei fatti drammatici. Insomma, il mondo molto prosaico della chiacchiera quotidiana, della cultura Pop, entrava in connubio con la leggenda, tanto che io parlavo di un ben riuscito amalgama tra un New Realism e una New Epic, secondo l’arguta dicotomia proposta dallo Spinazzola. In questa nuova storia tutto cambia, ma, come dicevo, non la struttura portante. Il lato storico, ma anche mitico, questa volta è dato dalla Guerra civile spagnola, che però si incarna in un personaggio, diversamente da quanto avveniva nella vicenda precedente. Al centro di tutto ora c’è Gerda Taro, pseudonimo di una tedesca, di origini polacche, dal cognome impossibile, Pohorylle. Basta lei da sola a costituire un centro gravitazionale, un astro attorno a cui ruotano tanti pianeti. In genere evito di avvalermi dei risvolti di copertina, ma questa volta vale la pena di riportare quanto recita il quarto del libro: “Gerda… era gioia di vivere. Qualcosa che esisteva, si rinnovava, accadeva ovunque”. Così è, questa stella effimera emette la sua luce intensa, fino a estinguersi in una morte precoce, ed eroica, sul fronte spagnolo, meritando solenni e commosse onoranze funebri a Parigi, dai suoi amici reduci dalla disfatta. Ma Gerda è tutt’altro che stella fissa, in quanto la scrittrice la insegue in un fitto gioco di passi avanti e indietro, la coglie nelle vicende domestiche, in una Germania in cui già furoreggia la persecuzione nazista, da cui sono afflitti i suoi familiari. E poi c’è l’esilio a Parigi, e l’andata, in qualità di fotografa armata di Leica, sul fronte spagnolo, con accanto un altro personaggio da leggenda, André Friedmann, che porta anche lui un soprannome attraverso cui tutti lo conosciamo, Robert Capa. I due si incontrano, si amano, si separano, in una trama fin troppo rotta, a pulsazioni alterne, in cui non è facile raccapezzarsi, è opportuno che il lettore si armi di penna, prendendo appunti per inseguire le acrobazie di queste due folli, agitate esistenze. Con accanto altri amanti, reali o potenziali, tra loro in particolare Georg Kuritzkes e Willy Chardack, cui è affidato il compito di assicurare la platea di noi esseri comuni. Infatti con pronto rimbalzo siamo trascinati nel dopoguerra, quando entrambi, usciti indenni dall’inferno della Guerra e delle persecuzioni franchiste e naziste, dialogano da lontano, l’uno trovandosi in una Roma anni ’60, l’altro per le vie di Boston. Entrambi in definitiva si scaldano ancora al fuoco di quella fiamma lontana che li ha travolti, e che ancora non ha cessato di emettere i suoi raggi salvifici, le sue cariche di energia, di voglia di vivere. Incredibile è l’accuratezza con cui la Janeczek ha documentato questi vari fronti, con rimbalzi incessanti dall’uno all’altro, perfino troppo. Il lettore talvolta avrebbe l’impulso di consigliarla a rallentare il ritmo, a prendere qualche pausa, ma lei continua ad agitare il suo caleidoscopio dalle mille facce, o a inserire nuove tessere in un puzzle fin troppo gremito.
Helena Janeczek, La ragazza con la Leica, Guanda, pp. 333, euro 18.