Ho già lamentato più volte l’angosciante presenza di questo “annus horribilis” che semina morte nella compagine di artisti e critici. Immaginiamoci se un simile sinistro soffio mortale poteva risparmiare la candela ormai fragile di Gillo Dorfles, entrato nel 108° di sua vita, il che gli assegnava un appuntamento ormai improrogabile con la morte. Questa è arrivata a impadronirsi del suo corpo, come in un film del regista svedese Ingmar Bergman, e del suo miglior attore, Max von Sydov, che proprio in ragione di quella sua figura fusiforme sembra imprendibile ai flussi del destino avverso, pronti a scorrere ai suoi fianchi, allo stesso modo che un palo resiste impavido alla piena di un fiume turbinante attorno a lui. O meglio, più di una resistenza rigida ai colpi avversi, bisognava riconoscere in Dorfles una natura elastica, intonata al “flectar non frangar, come di un paletto dello slalom che, anche se centrato dallo sciatore, si rialza prontamente disponendosi a subire incolume prossimi colpi. E in effetti nessuno come Dorfles ha fatto uno slalom ultracentenario, intanto tra i fatti storici, partendo addirittura dagli Asburgo, essendo nato in una Trieste ancora dipendente dall’impero austro-ungarico, come ci ha ricordato di recente una intervista da lui concessa al “Corriere della sera”. Ma soprattutto, slalom del critico, del fenomenologo degli stili, armato di due strumenti, in primo luogo una ferma fede che l’arte sia innanzitutto una questione di tecnica, da cui è venuta quasi un’”opera prima”, il “Discorso tecnico delle arti”, una dichiarazione di intenti, e di guerra a tutti i benpensanti, convinti che il fattore tecnico sia secondario, che al primo posto si debbano porre fattori spirituali, di anima, di spirito. Gillo ha creduto invece che si dovesse stendere, e rinnovare di continuo un sistema delle arti, ma senza troppa deferenza per le “belle arti”, anzi, escludendole quasi del tutto, e andando invece a rovistare ai margini, dove si trovano le attività meno apprezzate, come il disegno industriale, la pubblicità, il fumetto. L’altro pilastro, concomitante, di tutta la sua attività è stata la convinzione che il gusto non sia una invariante, ma al contrario una entità sfuggente, continuamente oscillante, così da dover consigliare al critico militante un atteggiamento di prudenza, o appunto di flessibilità, di elasticità di cui lui stesso ha dato prova continua non solo a livello critico, ma anche nella sua pratica diretta della pittura, dove ugualmente ha cercato di evitare gli estremi, di mantenere una navigazione di mezzo. La sua ferma fede che si dovesse partire da un nudo discorso tecnico lo ha portato a militare nel MAC, nel Movimento Arte Concreta, ma senza particolare dogmatismo, senza una tetragona insistenza sull’angolo retto e derivati. Anzi, in lui il segno si è presto arricciato, sensibile a una delle avanguardie più fascinose del secolo scorso, il Surrealismo, ma anche in questa direzione senza fanatismi unilaterali. I tuffi nell’onirismo erano estranei al suo senso dell’equilibrio, che lo portava a diffidare degli estremismi, e così non amò certo il clima anni ’50 con l’orgia materica dell’Informale. La sua pittura è dunque una specie di media statistica dei picchi in su e in giù che la ricerca dei nostri tempi ha conosciuto, una risultante, un minimo comun denominatore. Se in lui c’era l’incessante indagatore sul nuovo, del tutto convinto che appunto il gusto, lo stile, le scelte vanno su e giù, cambiano nel corso del tempo, si aggiungeva anche una opinione conseguente che non bisogna mai sommettere a fondo su un’unica casella, che i giochi sono vari, multipli, e che non è mai detta l’ultima parola. Una simile linea di condotta, nel suo caso, non era solo un’assunzione teorica del critico, ma qualcosa di più, una modalità di vita che si traduceva perfino in una specie di manuale del “bon ton”, della buona educazione, da esibire non solo nell’arte e nella critica, ma perfino nel modo di vestire, sempre corretto e impeccabile, e perfino nei gusti a tavola, Chi si è trovato a cena con lui ne ha appreso i modi, cari a un vecchio triestino, di come si deve gustare il pesce, se servito in bianco, ci sta bene una goccia di aceto. Questo per dire della portata enciclopedica, totalizzante che era in lui. La sua scomparsa segna la chiusura definitiva del XX° secolo, non senza che vi siano già annunci e presagi lasciati in eredità ai “millennials”
Da “artrubune”, 2 marzo 2018