Un incontro con l’amica e collega Carla Bernardini mi fa scoprire, con molta vergogna, che due anni fa mi era sfuggito un convegno su “Leonardo a Bologna”, dove a dire il vero la presenza del grande artista nella città felsinea non ha dato frutti eccessivi, ma non così quella di Giovanni Antonio Boltraffio, cui proprio la Bernardini ha dedicato un saggio approfondito, con un ottimo corredo di immagini. Se me ne fossi reso conto, avrei potuto portare acqua fresca al mio mulino, consistente nel tornare ad attribuire a questo allievo di Leonardo i due Ritratti, della “Dama con ermellino” e della “Belle Ferronnière”, che gli erano correttamente attribuiti lungo tutto il primo Novecento, per essergli poi stupidamente sottratti solo in base alla regola che, trattandosi di capolavori, non potevano essere usciti da un pennello ”minore”. Questo ad onta di ogni responso stilistico, secpndo cui il Boltraffio in qualche modo conferma il detto “guai all’allievo che non supera il maestro”. Qui però, più che fare un discorso di qualità, bisogna insistere sui caratteri intrinseci di un artista, e questi sono quanto di più diverso, nell’allievo, si possa trovare rispetto al maestro. Partiamo pure dal dipinto più importante che entra nell’antologia accompagnatrice del saggio, la tavola in cui si vedono il Battista, San Sebastiano e due committenti, con prestigiosa collocazione al Louvre. Intanto, c’è già una infrazione a una regola leonardesca, che amava composizioni incentrate su pochi protagonisti, mentre in quest’opera ci sono ben cinque figure di adulti, oltre al Bambino. Ma soprattutto, conta vedere come queste figure siano ben chiuse, come delle sogliole, delle “sottilette”, degli “ossi di seppia” entro confini certi e asciutti, con totale contradizione rispetto alla fattura aerea, porosa, “sfumata”, come avviene normalmente nel caso di Leonardo. Ma veniamo ai ritratti, che ovviamente costituiscono il miglior banco di prova nel confronto tra maestro e allievo. La campionatura offerta dalla Nernardini ce ne dà ben tre, dove si potrebbe osservare che i capelli appaiono mossi, inanellati, e dunque propensi a scherzare al vento, come voleva l’insegnamento del Vinci. Ma il Boltraffio istintivamente contraddice questa regola in quanto le sue onde pilifere, invece che essere leggere e soffici, e soprattutto affidate al libero caos della natura, oscillano con precisone puntuale, come fossero fuse nel bronzo, mutando appunto un carattere di sostanza organica in uno ben diverso di metallurgia, improntata a un bisogno di simmetria che è dominante proprio nel regno dei metalli, mentre è sconosciuto ad ogni ordine di natura. Il Maestro, se interpellato, avrebbe fortemente contestato una simile errata applicazione dei suoi precetti. Inoltre scatta un altro aspetto totalmente dissonante rispetto alla lezione vinciana, che voleva che i volti dei suoi personaggi fossero liberi da ogni recinzione, dismettendo collane, monili, ogni altro elemento che avesse preteso costituire degli ostacoli alla libera invasione dell’atmosfera. Al contrario, il Boltraffio sente un bisogno istintivo di simili corpi aggiunti, affusolati, lineari come colpi di fioretto, come agopunture. Sarà un monile che solca il collo del S. Sebastiano del Museo Puskin, o la freccia impugnata da un Giovane non meglio identificato di un Museo di San Diego, cui si aggiunge sulla chioma una vezzosa foglia d’alloro, quasi che in questo artista ci fosse la volontà di non mostrare mai della carne nuda, ma di dover inventare di volta in volta opportune coperture, copricapi. Il tutto trova poi un culmine nel ritratto dedicato proprio al gentiluomo che lo ha introdotto nell’ambiente felsineo, Girolamo Casio, anch’esso con collocazione illustre a Brera. La calotta sulla testa ospita un preziosissimo ricamo, tra natura e squisito artificio, qualcosa che viola, contraddice alle radici il perfetto naturalismo leonardesco. E si aggiunga quel collarino che cinge il collo, quasi il segno di un taglio crudele, di una ghigliottina, ma nello stesso tempo aggraziata, fino al lezio. E che dire di quel fiocco pendulo, anch’esso appartenente a un gusto per la decorazione, o comunque a una volontà di interrompere le superfici, di violentarle con qualche taglio, tra il crudele e il raffinato? Morale della favola, da questo saggio si conferma l’alta statura dell’allievo, anche per la capacità di andare per la sua strada, a dispetto di tanti commentatori recenti che hanno voluto limitarne il ricordo nascondendolo sotto l’ombra del grande Leonardo.
Con Leonardo a Bologna. Atti del convegno del maggio 2018, Biblioteca dell’Archiginnasio, seconda sessione.