La mostra del Verrocchio al Palazzo Strozzi di Firenze pone subito un quesito oggi assai diffuso: fino a che punto un museo che organizza una mostra monografica su un artista ha il diritto di pretendere che altri musei gli prestino opere considerate fondamentali per rispondere a quello scopo? Nel caso, il dipinto in cui proverbialmente è avvenuto il discepolato di Leonardo presso il Verrocchio è “Il battesimo di Cristo”, ma il direttore degli Uffizi, Elke Schmidt, si è guardato bene dal concedere il trasferimento di quel capolavoro seppure a poche centinaia di metri di distanza, anche per la buona ragione che ha appena finito di riunire i Leonardo degli Uffizi in un’unica sala, e quel dipinto fa parte di un sacro terzetto. Ma, difronte a un veto, motivato o no che sia, la mostra allo Strozzi non si poteva permettere di mettere nella copertina del catalogo proprio l’opera incriminata, il che si configura quasi come una frode ai danni del visitatore. Io stesso ho percorso almeno due volte le sale alla ricerca disperata della tavola mancante, chiedendomi se per caso mi fosse nascosta alla vista da quei drappelli di altri visitatori che fanno siepe attorno quadri più importanti impedendone la visione. Ma nonostante questa assenza, il rapporto tra il Verrocchio maestro (1435-1483) e Leonardo allievo (1452-1519) viene fuori molto bene dalla mostra, grazie al fatto che Andrea aveva accolto in larga parte la lezione proveniente da un suo quasi coetaneo, Desiderio da Settignano (1430-1464), coi suoi magnifici bassorilievi dedicati a teneri profili femminili, inseriti in leggiadri ovali, immagini di tenerezza, grazia, morbidezza, di cui il Verrocchio è stato buon erede, riportandoli in toto al piano. Di suo egli ci ha aggiunto pure delle capigliature dorate, ariose, deliziosamente arricciate, ovvero viene da lui un insegnamento di cui poi Leonardo si sarebbe fatto vanto, quell’ammonimento a far scherzare appunto i capelli all’aria, invece che tenerli racchiusi in masse compatte. E sempre da quella fonte gli è venuto pure il ricorso a mani lunghe, affusolate, distese lungo il corpo. A questo punto c’è da chiedersi se il famoso giudizio emesso dal Vasari non sia stata una perfidia, un atto in più dell’animosità che l’Aretino nutriva verso il Verrocchio, come del resto contro tutti gli esponenti della seconda maniera, soprattutto i nati attorno agli anni ’40-’50 del ‘400, ed aveva perfettamente ragione, da grande fenomenologo degli stili, come mi permetto di chiamarlo io per onorare la disciplina che ho insegnato per qualche decennio. Come si sa, ancora più duro l’Aretino era stato nei confronti del Perugino, accusandolo di valersi di stampi precostituiti per ripetere le immagini che gli venivano richieste con insistenza. E in genere egli non ha amato certo i Botticelli, e Ghirlandaio e Pintoricchio, che quindi la mostra fiorentina forse si poteva risparmiare di esporre in fitta schiera. Se fosse stato costretto a porsi alla loro scuola, Leonardo avrebbe recalcitrato con ben maggiore violenza di quanto non doveva fare verso il maestro riconosciuto, e anzi, ci possiamo chiedere se appunto non sia stata una perfidia, una vendetta ulteriore del Vasari ai danni del Verrocchio, quella pretesa che si sarebbe sentito sconfitto dalla maggiore maestria attestata dall’allievo. Forse Leonardo, nel concepire il famoso angelo di sinistra, così dolce, tenue, morbido, è stato davvero un allievo fedele. E la diceria vasariana secondo cui il Verrocchio si sarebbe sentito vinto, superato, al punto dal cessare di dipingere per darsi solo alla scultura, è appunto una immotivata cattiveria. Caso mai, il giovane di grande avvenire, doveva sentirsi sconcertato da certi dati di paesaggio presenti nelle tavola in cui pure inseriva il suo linguaggio già così “sfumato”: quelle orribili fronde di una palma, come un ventaglio agitato a sferzare l’aria, quelle rocce così squadrate e massicce. Mentre i lontani, ammettiamolo, hanno già una loro leggera trasparenza azzurrina. Probabilmente il Verrocchio nei suoi ultimi anni interruppe l’esercizio della pittura non perché si sentisse superato dall’allievo, ma perché si dedicò alla più redditizia pratica della scultura, con il lungo soggiorno a Venezia per modellare la statua di Bartolomeo Colleoni, in cui ovviamente doveva lasciar cadere le forme deboli e aggraziate provenienti da Desiderio per “fare la faccia feroce”. Ma era un obbligo del tema, perfino la famiglia dei Della Robbia, come si vede da un loro pezzo presente in mostra, in casi del genere aggrottava i volti, seppellendoli sotto maestosi cimieri. Del resto, all’occasione, anche lo stesso Leonardo sapeva coltivare dei foschi e minacciosi cipigli. Pescando dentro l’ampio repertorio consentito dalla mostra allo Strozzi, vale la pena di fare due riscontri che vanno in direzioni opposte. Il Verrocchio ebbe al fianco un collaboratore, Francesco di Simone Ferrucci, che calcava sui corpi dando loro più aggetto, più forza. Ma c’era anche Bartolomeo della Gatta, quasi coetaneo di Leonardo, che forse, in un cenacolo, popolato di figure molto realistiche, gli ha dato qualche suggerimento di cui il Vinci si potrebbe essere ricordato nella sua massima impresa milanese.
Verrocchio il maestro di Leonardo, a cura di F. Caglioti e A. De Marchi, Firenze, Palazzi Strozzi, fino al 14 luglio. Cat. Marsilio.