La mostra attualmente visibile a Palazzo Strozzi, “Il Cinquecento a Firenze”, è terza di un ciclo distribuito negli anni, ma forse nell’intento dei curatori, Carlo Feliciani e Antonio Natali, doveva svolgere il compito più significativo, rilanciare il secondo Cinquecento di quella lunga stagione, rivedere un certo schema storiografico secondo cui, dopo il grande capitolo di Pontormo, Rosso Fiorentino e Bronzino, con perfetta corrispondenza con i destini della città-stato, inizia un periodo di decadenza, segnando una simmetria inversa rispetto alla vicina Bologna in cui avviene esattamente il contrario. Il capoluogo felsineo aveva dormicchiato nella prima metà del secolo, ma poi aveva avuto, coi Carracci, un improvviso risveglio, un salto di qualità, con la fortuna di vedere nascere subito a ridosso dei tre cugini una schiera eccezionale di artisti, del calibro di Guido Reni, Domenichino, Guercino. Firenze senza dubbio aveva surclassato la rivale di là dall’Appennino, e questa mostra lo ricorda nelle prime sale mettendo in mostra un superbo Andrea del Sarto, un “Compianto su Cristo morto”, dell’artista che a Firenze aveva rappresentato fermamente l’approdo alla “terza maniera” del Vasari, quella da dirsi propriamente “moderna”, cogliendo la grazia e la fluidità di Raffaello assieme all’imponenza di un altro artista nato in casa come Fra’ Bartolomeo. Si sa che sempre il Del Sarto, pur rimanendo coi piedi ben fermi nella classicità, per talune smorfie dei suoi volti aveva aperto la strada ai due sublimi trasgressori di quel clima equilibrato, i “dannati” Pontormo e Rosso, e il vedere affiancati i loro capolavori, le due “Deposizioni”, della fiorentina S. Felicita e di Volterra, valgono da sole una visita alla mostra, se si aggiunge anche il Bronzino. Poi, purtroppo, è scattato l’effetto non proprio positivo dell’avere avuto in casa a più riprese Giorgio Vasari, assieme al Salviati. Il Vasari è tipico autore “double face”, straordinario nell’impostare una storiografia che ancora oggi resiste. Io personalmente mi permetto di dichiararlo fondatore della disciplina, la fenomenologia degli stili, che ho insegnato per decenni. Questo avviene nei “Proemi” delle sue “Vite”, dove ci offre il miglior annuncio di una modernità, con Leonardo, Raffaello e Giorgione, che regge fino a tutto l’Ottocento. Ma purtroppo duplice è il significato che ha in lui il termine di maniera, per un verso vale a denominare con sicuro intuito l’avvento di grandi epoche stilistiche, per un altro verso contiene l’invito a “imitare” i cultori di quelle aperture, e dunque a operare una sintesi di Leonardo, superato da Raffaello in morbidezza atmosferica, nello stesso tempo pronto a puntellarla, a irrobustirla con la grandiosità delle forme michelangiolesche. Questa per il Vasari è l’infausta “bella maniera” di cui lui stesso ha voluto essere campione esemplare, assieme al Salviati, dandoci tele gonfie, truculente, insostenibili. C’è chi ha tentato di recuperarlo come pittore, ma credo che questo intento sia irrealizzabile. L’indubbia grandezza vasariana resta legata alla sua geniale impostazione storiografica, e anche all’impresa architettonica che gli ha consentito, con gli Uffizi, di essere davvero moderno anche in questo ambito, anzi, addirittura un precursore del Movimento moderno del secolo scorso, dando un esempio di nitido funzionalismo, con decorazioni sobrie, contenute. Non è compito mio stare a esaminare da vicino la sfilata di tardo-cinquecenteschi che la mostra ci propone in abbondanza, per sostenere la tesi primaria che la muove. Non starei a fare delle differenze tra Santi di Tito, Alessandro Allori, e altre presenze minori che qui compaiono, il quadro offerto sul piano filologico è perfetto. Ma nessuno di loro sfonda i confini di soluzioni statiche, ancorate, non già ai grandi maestri del moderno, ma, ahimé, vittime della “bella maniera” così dannosamente proclamata dal Vasari. C’è un forte dato cronologico, a separarli dai vicini-lontani pittori bolognesi, un salto d’anni. Gli artisti che ho elencato nascono tutti attorno al ’30 di quel secolo, mentre Ludovico Carracci, che apre la serie bolognese protesa a rilanciare il moderno e a farne il vademecum per tutto il Seicento e oltre, nasce quasi una generazione dopo, nel 1555, questo forse è il salto generazionale che gli permette di uscir fuori dai rischi di un Manierismo, che a Bologna non è mai stato della classe di un Rosso e di un Pontormo, per andare a studiare i “veri” moderni, Tiziano a Venezia, il Correggio a Parma. Questo è l’eclettismo che si è tanto rimproverato alla Scuola bolognese, ma al contrario Ludovico e compagni hanno saputo ricavarne un cocktail di grande efficacia, buono per soluzioni future. Anche i fiorentini di cui ho detto sopra sono stati degli eclettici, ma nel senso dannoso proposto dal Vasari, cioè nel senso di tentare una sintesi tra Raffaello e Michelangelo, tanto per esprimerci a grandi linee, non valida per soluzioni future. La Controriforma in tutto questo discorso non c’entra perché era presente in entrambe le situazioni, ma, tornando a Ludovico e guardando una sua “Annunciazione”, egli accetta davvero l’invito della Controriforma a essere semplici, quotidiani, offrendo una prova di buon realismo naturalista, mentre lo stesso tema affrontato da Andrea Boscoli, nato una decina d’anni dopo, non manca di portarsi dietro ornamenti, esibizione di gigli alquanto leziosi, squarcio del cielo con visione di angeli, l’autore insomma non riesce a rompere con le bellurie ostentate dal Vasari-pittore.
Le cose vanno meglio sul fronte della scultura, merito, questo, della presenza tra i grandi protagonisti a Firenze di una “maniera” autenticamente moderna, del Cellini, protetto dai gonfiori michelangioleschi grazie alla sua professione primaria di orafo, il che lo porta a modellare corpi snelli, flessusi, sguscianti come serpenti, virtù che affida a un suo allievo come il Giambologna. Basti vedere un suo “Ratto delle Sabine”. E’ vero che a dominare il campo c’è un vasariano nella plastica, l’Ammanniti, ma riconosciamogli un destino molto simile all’autore aretino, di pesante scultore ma di eccellente architetto, in Palazzo Pitti, anche se volto a celebrare il gusto manierista. Proprio il “Biancone”, la statua in cui l’Ammannati concentra tutto il suo michelangiolismo, mette in fuga il Giambologna, portandolo a regalare alla città felsinea il Nettuno che ne è divenuto il simbolo. Buoni anche i bassorilievi di Vincenzo Danti, forse protetti da gonfiori eccessivi dal genere stesso da cui escono. Infine, se vogliamo vedere un artista che si libera davvero dagli orpelli vasariani gravanti su tutto il secondo Cinquecento fiorentino, andiamo a Pietro Bernini, nato nel 1562, se avesse avuto altri colleghi di quella stessa ondata generazionale, chissà, Firenze avrebbe potuto anch’essa fare il balzo verso la modernità del Seicento. Si sa che Pietro è padre del grande Gian Lorenzo, forse il “Martino divide il mantello col povero” che gli lascia in eredità è opera semplice, pulita, davvero in regola con i precetti controriformisti, e in linea con l’Annunciazione “povera” di Ludovico. Un’ottima base di partenza per consentire al figlio di procedere da lì verso i suoi gruppi sorprendenti, fatti via via più arditi, ma non guardando indietro alla pinguedine vasariana, bensì in avanti, verso un realismo sempre più pieno, pur sempre accompagnato da tutti i conforti della tradizione, che dominerà il secolo a venire. E’ anche la soluzione seguita in pieno, sul fronte della pittura, della Scuola bolognese, da Annibale e suoi continuatori.
Il Cinquecento a Firenze, a cura di Carlo Falciani e Antonio Natali, Firenze, Palazzo Strozzi, fino al 21 gennaio. Cat. Mandragora.