Tra tante mostre inutili e ripetitive finalmente si è riusciti a dedicarne una a Ambrogio Lorenzetti, mai fatta prima, superando i tanti ostacoli, difficile trasportabilità delle tavole preziose, problemi di attribuzione ancora aperti, e poi, si sa, il bene della pittura del Trecento e oltre è affidato all’affresco, per natura intrasportabile, salvo a offrirne ampie riproduzioni su cataloghi e manuali. Ambrogio viene a salvare la prima metà del Trecento dall’occlusione compiuta da Giotto, implacabile, estrema, con le sue forme massicce. Dopo di lui il Trecento a Firenze boccheggia, segna il passo, avvalendosi del comodo giustificativo della Peste nera, venuta proprio alla metà del secolo a imporre una vistosa cesura, un blocco evidente. La stessa data infausta agisce anche a Siena, spegnendo fra gli altri proprio il nostro Ambrogio, che però negli anni precedenti aveva fatto in tempo a saltar fuori dall’eccesso di volumetria e di plasticità di Giotto e compagni, beninteso con l’aiuto dei maggiori di lui negli anni Simone Martini e il fratello Pietro. Vale senza dubbio lo stereotipo che attribuisce alla Scuola senese l’aver praticato un linearismo sciolto e zigzagante nello spazio. Diciamo la parola, i Senesi sono i veri gotici, mentre l’appellativo suona stonato proprio nel caso di Giotto, che transita dal romanico verso l’incipiente Rinascimento di Masaccio e compagni, L’architettura gotica, coi suoi fragili colonnini e baldacchini, ci sta male, per esempio in un capolavoro come la Pala d’Ognissanti, si vorrebbe quasi poterla espungere, togliere di scena. Mentre il goticismo dei Senesi è davvero intrinseco, anzi, si vorrebbe dichiarare che esso si proietta ormai verso la fase tarda del gotico fiorito. Se non ci fosse circa un mezzo secolo di mezzo, potremmo dire che Ambrogio anticipa già i Gentile da Fabriano e i Pisanello. Andiamo a vedere, per esempio le varie Madonna con Bambino. In quella conservata a Brera spicca la benda attorcigliata attorno al pargolo, quasi un simbolo dell’intera poetica dell’artista, volta ad assottigliare i corpi, a renderli affusolati, come dei salami ben stretti da un giro di lacci. Si sa poi quale capolavoro di avvolgimenti curvilinei sia la Madonna e Bambino conservata a Siena, Museo Diocesano, ma forse il capolavoro della serie è l’esemplare del Louvre, col Bambino che con gesto aggraziato, perfino lezioso, si porta a succhiarsi le dita della sinistra mentre con quelle della destra, divaricandole, si aggancia al manto della Vergine, campito con un compatto fondo scuro proprio per consentire a quei ditini di stagliarsi quasi come ombre cinesi. Passando ai polittici, è di nuovo una dichiarazione di poetica che uno di questi, delle Storie di San Michele conservate a Firenze, S. Procolo, si dica per tradizione composto “in figure piccole”. Questo è proprio il segreto dell’officina di Ambrogio, a totale contrasto col giottismo: ridurre, affidarsi a sagome snelle, serpeggianti nello spazio, il che gli consente pure di acquisire una straordinaria capacità descrittiva, fisionomica. Al centro di tutto ci sta “La professione pubblica di S. Ludovico da Tolosa” (Siena, S. Francesco), con i cappelli del clero in primo piano che sembrano come tanti dischi lanciati a fendere lo spazio, mentre le figurine si accalcano sul retro, inserendo i loro volti negli interstizi. Il giottismo esclude qualsivoglia capacità ritrattistica, in quanto insegue invariabilmente un modello unitario, solenne, statuario dell’umanità. Ambrogio, invece, proprio in virtù di una fattura sempre agile, sottile, disincantata riesce mirabilmente a caratterizzare i singoli volti, a variarne all’infinito i modelli, le tipologie, cogliendo per strada anche l’aiuto che, verso un esito del genere, può essere dato da tanti complementi fisionomici quali le barbe o i costumi. C’è infatti in lui una curiosità a espatriare, a guardare fuori sede, una voglia di erranza, di nomadismo. Se Firenze, con Giotto, si sentiva caput mundi, non così la minore Siena, desiderosa di puntare all’esterno, di impadronirsi appunto di costumi, mode, abbigliamenti foresti. Il trionfo di tutto ciò sta proprio nelle già ricordate Storie di San Nicola, per antonomasia dipinte “in figure piccole”, dove la fragile architettura gotica, fatta di esili, filiformi colonnine, ci sta a meraviglia, nessuno la vorrebbe eliminare, a differenza dell’impulso suscitato dalle “false”, improprie strutture gotiche dei capolavori giotteschi. Ovviamente le “piccole figure” si iscrivono alla perfezione in questi scrigni magici, ben attente a rispettare misure leggere, a gesticolare in modi contenuti, che quasi non afferrano spazio, non hanno alcun desiderio di farsi ingombranti. Naturalmente tutte queste virtù hanno il loro approdo, la consacrazione definitiva nei grandi murali che si ammirano nel Palazzo Pubblico, dove il Buon Governo si raccomanda per la moltitudine di personaggi che sfilano in parata, ciascuno dotato di tratti fisionomici e abiti abbastanza dettagliati, mentre nel Mal Governo emerge la centrale figura satanica, coi due cornetti deliziosamente scontornati, da un artista pronto ad affidarsi al gioco delle “ombre cinesi”. Ma il clou, ben lo sappiamo, sta nella straordinaria visione panoramica di un paesaggio che si allarga, si estende. Non sarebbe mai stato possibile un esito del genere a qualche giottesco, costretto a trascinarsi dietro l’immane peso dei corpacci cui quell’insegnamento lo condannava. Invece il fare piccolo di Ambrogio, che trasforma gli esseri umani quasi in saltellanti cavallette, gli consente di andare ad abitare le vaste distese, è appunto, conviene dirlo di nuovo, il miracolo, la virtù di procedere con “figure piccole”.
Ambrogio Lorenzetti, a cura di A. Bagnoli, R. Bartalini, M. Seidel. Siena, S. Maria della Scala, fino al 21 gennaio. Cat Silvana.