Leggo sul “Corriere della sera” di lunedì scorso, 19 luglio, di una mostra che si apre al Palazzo Ducale di Urbino, dedicata al Perugino, nella sua qualità di maestro di Raffaello. Ne parla con piena competenza, sul foglio milanese, Carlo Arturo Quintavalle, mentre la mostra stessa si deve a Vittorio Sgarbi, che qualche volta riesce a fare buon uso del potere enorme che gli deriva dalla sua collocazione politica, alla destra dell’(ex) Dio Padre Berlusconi, di cui comunque qualche barbaglio continua ad arrivare all’irrequieto pupillo ferrarese, pronto peraltro anche a farne un cattivo uso come mi pare che risulti dalle mostre da lui realizzate al MART di Rovereto, tradendo la vocazione contemporaneista di quella istituzione, andando ad accostare campioni dell’oggi con irrelati maestri di ieri. Ma il Perugino è stato di sicuro maestro di Raffaello, da lui mai dimenticato, perfino mantenendone qualche tratto fisionomico, un certo sorriso, quasi un rictus, impresso alle Madonne e ad altre figure. Però, bisogna subito aggiungere che Raffaello è stato un genio in continua crescita su se stesso, ha succhiato il latte dove gli faceva comodo, ma pronto a passare ad altri obiettivi più avanzati. E così, ha abbandonato il Perugino per due pilastri ben più avanzati, Leonardo e Michelangelo, di cui è riuscito a operare una sintesi perfetta, rinforzano la debolezza vinciana, ammorbidendo la durezza michelangiolesca. Tutto questo è stato visto con piena lucidità dal Vasari, pronto invece, nelle sue “Vite”, a denunciare i limiti degli artisti della seconda maniera, con particolare durezza proprio verso il Perugino, accusato, abbastanza giustamente di cadere nella stereotipia, di avvalersi di stampi per replicare i suoi dipinti. Del resto l’Aretino ha infierito anche verso un altro dei maestri di fine Quattrocento, il Verrocchio, in questo caso perfino ingiustamente, in quanto un po’ della sua dolcezza Leonardo giovane l’aveva pur potuto ricavare da quella scuola. Ma ritornando al Perugino, è quasi da manuale mettere in evidenza gli aspetti in cui l’intraprendente Raffaello, pur nel segno della derivazione, sta lentamente scalzando i limiti del pur effettivo suo “influencer”. Per esempio, come deriva dai limiti della seconda maniera, le figure del Perugino sono tutte di uguale altezza, racchiuse entro una linea orizzontale che gli impedisce di saltarne fuori per conquistare una libertà di mosse. Il che consente che queste figure, tutte della stessa dimensione, posano essere ingabbiate dentro delle cellule architettoniche a loro volta ben stabili, attente a non prevaricare da rigide simmetrie, tracciate con il tiralinee e il compasso. Del resto, a documentare i passi in avanti dell’allievo, verso la conquista della maniera terza o moderna, sempre per dirla col Vasari, basta fare il confronto con le due versioni dello “Sposalizio della Vergine”. I protagonisti perugineschi della scena se ne stanno tutti impalati in primo piano, senza osare di andare a movimentare gli spazi retrostanti, che invece vengono invasi, da parte di Raffaello, seppure, al momento, in misure limitate e rarefatte. Notevoli differenze si hanno soprattutto nell’architettura. La chiesa della versione del Perugino è anch’essa rigida, dura, spigolosa, mentre Raffaello è già capace di arrotondarla, quasi di plasmarla con le mani per avviarla verso un motivo di sfericità più inclusiva. Insomma, mentre l’universo peruginesco è statico e immobile, quello dell’allievo trasgressivo è già mobile, anche se è ancora ben poca cosa, se pensiamo alle varianti future di cui quel grande talento sarà capace.
Perugino, il maestro di Raffaello, a cura di V. Sgarbi. Urbino, Palazzo Ducale fino al 17 ottobre.