Ancora una volta mi valgo della facoltà di inserire in questa sezione del mio blog, usualmente dedicata ad opere di narrativa, una prova cinematografica come frutto di un’attività equipollente. Ho appena visto l’ultimo film del regista oggi più talentuoso che si muova sull’intera scena internazionale, Quentin Tarantino, “The hateful eight”. Il suo capolavoro resta senza dubbio “Pulp fiction”, del ’94, film epocale, al pari di poche altre pellicole distribuite negli anni, penso a “Paisà” di Rossellini, alla “Dolce vita” di Fellini. In quell’occasione Tarantino affondava mirabilmente nell’attualità spremendone ogni orrore ma anche ogni possibile motivo consolatorio, in una perfetta combinazione di alti e bassi. Sembra quasi che in seguito non abbia più tentato di cimentarsi in un’impresa del genere, portando i suoi incontenibili impulsi di crudeltà e spietatezza a infierire su un mondo di stereotipi, di miti del passato, che gli lasciassero le mani libere. Ecco così la rivisitazione del capitolo dello schiavismo, nel penultimo “Django unchained”, e ora dell’epopea western, Questo intervenire su un “corpo vile”, o comunque indiretto, lo abilita a buttarsi in un manierismo sfrenato, quasi che il tutto fosse preceduto da un avviso allo spettatore, “ma non è una cosa seria”, “non prendetemi alla lettera”, “lasciatemi divertire”, ovvero dare prova di atrocità fino al limite del gratuito, del grandguignolesco, cose ovviamente già da lui sperimentate, basta pensare proprio al film con cui egli si è rivelato, “Le iene”, che magari si cimentava già con l’attualità più nera e delinquenziale, ma lo faceva rimanendo chiuso in gabbia, e così eludendo il respiro ampio raggiunto appunto da “Pulp fiction”. Qui, a voler insistere sul carattere di chiusura con cui si svolge l’intera narrazione, sono stati evocati i “Dieci piccoli indiani”, capolavoro di Agata Christie, ma a Tarantino non interessa affatto il clima asfittico, da impalpabile dramma di buona borghesia, intenta solo ad amministrare peccati commessi in guanti bianchi. Piuttosto che muoversi in quel mondo troppo raffinato e frigido, meglio rivolgersi ai miti ben più consistenti e anzi ridondanti dell’epopea western, come il treno per Yuma o la sfida all’Ok Corral. Anche qui, la sostanza del racconto sta in una banda di fuorilegge che vuole sottrarre un proprio membro alla condanna a morte, procedendo brutalmente in questa intento di liberazione. Il tutto però mascherato, giocato a carte coperte che vengono rivelate poco alla volta. All’inizio assistiamo allo sfilare di una diligenza in un paesaggio innevato e mortuario, il che ci ricorda la partenza di Django. Ma in questo caso sono presenze singole a fermare lo scorrere della diligenza, che conduce appunto Daisy Domergue a un immaginario centro della civiltà, Red Rock, che dovrebbe provvedere alla sua esecuzione. Accanto a lei un brutale “cacciatore di taglie” che la maltratta con ogni possibile brutalità. Questa diligenza della morte comincia a imbarcare altri protagonisti, e giunge a una stazione di sevizio in cui ne compaiono altri ancora, e a dire il vero la scena per qualche tempo sembra troppo immobile, non si capisce a che gioco stanno giocando i vari presenti. Poi si scatena la grande carneficina, che attraversa tutti i possibili gradi dell’orrore. Per esempio, alcuni vengono eliminati facendogli bere un caffé avvelenato, il che provoca in loro un vomito sanguinoso, nella cui esecuzione pare proprio che Tarantino si ricordi di un suo predecessore in soluzioni orrorifiche, il Carpenter della “Cosa”. Un altro modo di procedere a un ammazzamento plurimo è gestito dal personaggio numero uno, Marquis Warren, interpretato da un Samuel Jackson, l’attore cui viene data la più incombente presenza, a rappresentare la nobile causa degli ex-schiavi neri che si devono vendicare di secoli di oppressione. Riecheggiando proprio motivi da saloon, Warren-Jackson dà inizio alla sua vendetta programmata col fare fuori un generale dei confederati, quindi razzista al massimo. A tale scopo si vale del ben noto espediente di mettergli in mano un’arma, provocandolo poi fino a puntarla contro di lui, e così dandogli il diritto per legittima difesa di anticiparlo e di sparargli per primo. Segue una sparatoria generale in cui, lì per lì, lo spettatore stenta a scoprire i fili. Ma poi, come sempre, il regista fa passi indietro risolvendo il rebus enigmatico, e informandoci appunto che in quella misera stazione di servizio era giunta la banda dei compagni della prigioniera portata al patibolo, i quali avevano fatto fuori i legittimi gestori di quell’avamposto buttandone i cadaveri in un pozzo. Ma queste trame non sfuggono alla intelligenza di Warren-Jackson, che prevede con acuta lungimiranza le mosse degli avversari. Non può però evitare che un componente della banda, nascostosi nello scantinato, gli spari dal basso, il che rovescia una famosa situazione sfruttata all’altezza dei “Bastardi senza gloria”, dove era stato un ufficiale tedesco a sparare dall’alto ben sapendo che sotto il pavimento erano nascosti dei poveri ebrei nel tentativo di sfuggire alla cattura. Naturalmente la bulimia, la libidine stragista del nostro Tarantino non fa sconti, in questo si attiene davvero al modello estremo dei dieci piccoli Indiani di cui, come ben si sa, “non rimase nessuno”. In realtà, Warren avrebbe vinto e con lui chi malgrado tutto rappresenta davvero la legge, un tale, salito anche lui su quella specie di barca di Caronte, avviato a raggiungere Red Rock in qualità di sceriffo, ma come tutti, rimasto vittima della sparatoria generale. I due sanno bene di dover raggiungere presto gli altri già deceduti, ma sul limite dell’esistenza si concedono di sbandierare un pizzico di valori ideologici, e così uniscono le forze residue per impiccare la capobanda, che aveva sperato di farla franca con l’aiuto dei complici. E interviene per loro anche un motivo di consolazione, infatti Warren si vanta di essere latore addirittura di una lettera ricevuta da Lincoln, indirizzata a lui come rappresentante della razza oppressa dei neri. I due, con le mani insanguinate, si passano quel documento come un talismano, tanto per morire nel nome di un valore positivo. Chissà se Tarantino, in questa soluzione estrema, si è ricordato di un predecessore nel tessere storie orrorifiche, il regista francese Clouzot e il suo “Vite vendute”, o “Le salaire de la peur”, in cui l’unico sopravvissuto, impersonato da Yves Montand, prima di essere ingoiato come ogni altro dalla catastrofe imminente, contempla un biglietto della metropolitana parigina, come lontana, irraggiungibile fonte di consolazione.