Raramente l’enorme spazio dello Hangar Bicocca, a Milano, è stato occupato in modo così totale, e felice, come avviene ora nell’ospitare la rassegna di Matt Mullican (1951), “The Feeling of Things”. E’ come se lo slancio verticale delle Sette Torri di Anselm Kiefer fosse crollato su se stesso per espandersi in orizzontale. C’è solo una sezione dell’intera superficie dedicata a un prologo, dovuto a un’artista ceca, Eva Kot’Atkovà, con un onesto bricolage di pezzi vari. Ma poi, si entra, in che cosa? Mi viene fatto di ricordare il detto baudelairiano, “mon coeur mis á nu”, e parlare invece di “mon cerveau mis á nu”. Ecco la risposta, Mullican sciorina l’intera sua massa cerebrale estraendola dalla minuscola scatola cranica che la contiene e sviluppandola in una maestosa, illimitata espansione. Ci si può riferire ai tempi in cui il computer, anch’esso, non era ristretto in un minuscolo apparecchio quasi portatile, ma si estendeva in lunghi corridoi e pareti, allora infatti si parlava di “processori” che quasi mostravano a nudo la laboriosa ruminazione cui procedevano, con tempi lunghi. Oppure ricorriamo a similitudini più consuete, diciamo che Mullican ci offre un labirinto dalle mille giravolte, in effetti i vari scomparti in cui si addensano tutto il suo sapere, la sua memoria ed esperienza sono cinti da muretti ricurvi, e spesso si deve ritornare sui propri passi per trovare l’uscita e passare all’isola successiva. Oppure siamo messi al cospetto di un’Atlantide, non si sa bene se si tratti di un continente perduto o invece di un pianeta da raggiungere con audace navigazione spaziale. Ad aiutarci nella visita c’è una segnaletica, essenziale, fondata sui cinque colori del pantone, giallo-rosso-verde-blu, e il nero a mettere ogni tanto una pausa, una cesura, ma per ricominciare subito dopo daccapo. Che questo sia un continente a se stante, lo rivelano gli enormi drappi che garriscono in alto annunciando l’esistenza della Terra promessa, ma dopo quell’avvistamento bisogna guardare in basso, perché è in quella dimensione quasi raso terra che si svolge lo spettacolo illimitato di pannelli in cui sono suddivise le varie materie, le prove di scrittura, minuziose, come in un codice leonardesco, o l’infinita serie di disegnini, talvolta astratti, talaltra pronti a delineare delle icone, ma sottili, sfuggenti, come per delle vignette illustrative o dei “comics”. Per un verso, è il trionfo della manualità, di quanto risulta da manifestazioni dirette del segno, della grafia, per un altro verso non manca la comparsa proprio dei video di ultima generazione, che ci propongono la visione di città utopiche, dove forse l’artista vorrebbe andare a riporre quel suo immenso tesoro privato, oppure aprirlo a pubbliche frequentazioni. Infatti in questo universo la dimensione del privato, del soggettivo, quasi dell’autistico, del delirio personale, si muta prontamente in suggerimento per un destino collettivo, tutti potremmo migrare verso quelle città perfette, utopiche. Non senza però portarci dietro qualche reperto, senza dimenticare anche una selezione di esistenze animali, quasi che fossero fatte salire su una specie di Arca di Noé, in modo da portare in salvo tutto quanto è appartenuto al nostro mondo. Fra l’altro, tra questi reperti museali, ci stanno pure gli avanzi dei robot di cui ci siamo serviti per organizzare un’evasione di massa. Ma soprattutto, ci guida, ci alletta, ci incuriosisce il senso di uno spettacolo che si rinnova di continuo, oltre i muretti di cinta, sempre ricco, vario, generoso, fino ad approdare all’ultima stazione in cui le pareti sono fasciate per intero da una rigogliosa campionatura di quanto abbiamo già ammirato nelle circonvoluzioni precedenti, come fossimo arrivati a una sorta di passerella finale, dove oltretutto l’artista si rialza dalla piattezza da lui frequentata fino a quel momento, e quasi tende la mano all’ospite fisso, a Kiefer, dandosi pure lui a un incontenibile slancio verticale.
Matt Mullican, The Feeling of Things, a cura di Roberta Tenconi, Milano, Hangar Bicocca, fino al 16 settembre