Venerdi 3 novembre pomeriggio e sabato 4 mattina si è svolto il RicercaBO 2017, decimo della serie bolognese. Com’è andata? Mi sembra che i presenti ne abbiano riportato un’impressione positiva, condivisa da me. Intanto, partiamo da un dato esterno ma significativo. Per la prima volta si è raggiunta una piena parità tra colletti rosa e azzurri, sei per parte, a riprova che le donne si stanno conquistando il diritto all’eguaglianza, per lo meno in attività leggere e sovrastrutturali come la letteratura e le arti, mentre lunga e dura resta la lotta per la penetrazione nei poteri forti, politica ed economia. Venendo alle indicazioni stilistiche, questa edizione si è caratterizzata per una supremazia della narrativa, o diciamo, per non comprometterci troppo, della prosa. Nelle edizioni precedenti i narratori vagavano incerti, tra realismo magico, clima favolistico, metafisico e simili. Quest’anno c’è stato un ritorno alla testimonianza diretta, ai drammi del presente, a un incalzante “qui e ora”, aperto, se si vuole dalle pagine di autoanalisi offerte da Paola Silvia Dolci, con un tono freddo e davvero clinico, ma affondante nei remoti recessi della vita psichica, a fornirci una attenta e puntuale “Daseinanalyse”. Che, si badi, è cosa assai diversa dalla autonarrazione, compiaciuta e tutto rovesciata sui dati sociali, in cui oggi incorrono tanti narratori “maggiori” che magari affollano i premi ufficiali. Anche quest’anno la un buon numero di testi è venuto dai partecipanti al Premio Calvino, che ovviamente restano inediti a pochi mesi dalla loro comparsa in quella sfilata, e quindi, con il consenso del Presidente di quel Premio, Mario Ugo Marchetti, RicercaBO è in grado di metterli alla prova, fornendo utili indicazioni agli editori, nel caso che le vogliano raccogliere. Ebbene, i quattro testi provenienti da quella sorgente confermano un tono aggressivo, seppure con ritmi e velocità, anche di lettura, molto diversi tra loro. Nicolò Cavallaro e Andrea Esposito vanno alla carica con brutalismo martellante, tanto che mi sono sentito autorizzato a fare un richiamo alla Gioventù cannibale, indimenticabile stagione anni Novanta e delle sessioni di RicercaRE, utili da menzionare anche in ricordo dello scomparso Severino Cesari, che col socio Repetti aveva diretto quella carica travolgente. Ho pure ricordato il giudizio che Edoardo Sanguineti, intervenuto a Reggio in una di quelle parate di nipotini, li aveva incoraggiati al suono do un celebre titolo di uno degli Spaghetti western: bravi, continuate così, a essere brutti, sporchi e cattivi. E’ una formula che conviene perfettamente ai due reduci dal Calvino sopra menzionati, trovandosi d’accordo con altri di provenienza autonoma, come Luca Bernardi, Simone Burratti e Luciano Mazziotta, quest’ultimo capace anche di portarci un altro fenomeno vivo e intrigante di questa edizione, l’ibridazione dei generi. Infatti il suo testo ha pure valenze teatrali, ovvero il dramma esistenziale si accampa nel chiuso di stanze protette, divampando al loro interno. Ritornando ai reduci dal Calvino, le due voci femminili rallentano, come hanno sottolineato le autrici con letture forse fin troppo pacate, e dunque nel loro caso da una scrittura nera, violenta, tempestosa si passa a toni bianchi, asettici in apparenza. Come il duo di adolescenti che, nel brano letto da Emanuela Canepa. sperimentano in modi prudenti e circospetti il dramma di una omosessualità latente, quasi mettendo in atto una delle autoanalisi promosse dalla Dolci. Dell’enorme romanzo steso da Serena Patrignanelli avevo conoscenza completa, avendolo presentato nel mini-festival che tengo ogni anno al Grand Hotel Savoia di Cortina, e dunque so bene quanto difficile sia poterlo apprezzare appieno alla lettura di un brano ridotto, dove compaiono solo pochi dei personaggi che lo animano, così numerosi, che nella pubblicazione che certo non mancherà consiglierei all’autrice di premettere la lista completa delle dramatis personae. Comunque, è un mondo di ragazzini abbandonati a loro stessi, senza padri né madri, intenti a raccapezzarsi in un paesaggio desolato di rovine, a montare con un industrioso quanto povero bricolage dei pezzi superstiti di un universo industriale naufragato. Questa potrebbe essere anche l’indicazione metaforica per l’intero destino di questa ondata di nuovi narratori, decisi appunto a fare da sé, a ritornare ai primordi del genere, pronti del resto a farne dei poemetti in prosa, quasi delle prose liriche, come sono quelle fornite da Piero Tallarico.
Di fronte a questa offensiva della narrativa, ma pronta a farsi carico di battute lirico-esistenziali, la poesia quest’anno ha fatto marcia indietro, lasciando alla sola Eva Macali il compito di testimoniare a favore di uno sperimentalismo pronto a disseminarsi sulla pagina, invece che raccogliersi e concentrarsi come nei testi in prosa. Il caso più esemplare è stato quello di Marica Larocchi, peraltro già assai nota, perfetta nel conciliare una quasi classicità metrica, di sfruttamento di esatti e corretti endecasillabi, che però compattano al loro interno una multiforme semantica volta ad appropriarsi di ogni possibile materia di esperienza. In fondo, anche i prosatori sopra ricordati avrebbero potuto tentare di far entrare le loro esperienze nel contenitore stretto dei versi, così come la Larocchi, a sua volta, potrebbe spargere le chiome e dare in soluzione continua i suoi arditi “cadaveri squisiti”. Le è risultata al fianco la più giovane Marilina Ciaco, anche lei intenta a far entrare un multiforme materiale di vita in forme eleganti e con qualche accento tradizionale.