Francamente temevo che l’attuale edizione di RicercaBO fosse in minore, quasi preludio a una fine imminente, invece ha avuto uno svolgimento che ritengo molto positivo e degno di interesse. Ragione di fondo, una preponderanza della narrativa, ben nove sui dodici selezionati si sono presentati con testi in prosa, sovvertendo un criterio distributivo che in altre edizioni era stato a favore della poesia, libera da impegni col mercato, e dunque capace di sfruttare in pieno, con soluzioni ardite, la sua stessa leggerezza e inconsistenza, come di trepida farfalla. Si dice invece, soprattutto negli ambiti sperimentali che sono il nostro naturale terreno di cultura, che la causa della narrativa è dannata, in quanto sottoposta alla dura legge degli editori che impongono ai poveri autori di sollevarsi alla misura del romanzo, e di renderlo appetibile, pronto per una traduzione nei registri del cinema o del serial televisivo. In fondo, l’esempio che ci aduggia ci viene da quel falso santone laico che è Roberto Saviano, con la sua “Paranza dei bambini”, orrido concentrato di false brutalità e crimini assurdi, gabellati come un pensoso tributo alla denuncia, mentre è proprio l’arrendersi alle necessità del prodotto facile e manierato. Ma se i giovani si sottraessero al falso miraggio del “romanzo”? Ho già detto in queste riflessioni che l’unico punto di consenso tra me e Alfonso Berardinelli sta proprio nel respingere la stupida pretesa che nel DNA della narrativa stia impresso l’obbligo di pervenire al “romanzo”. Purtroppo è triste sentire premettere, da questi bravi giovani, quando prendono la parola, che vanno a leggere un brano da un inevitabile e necessario romanzo. Per fortuna forse non lo termineranno mai, o se anche lo facessero, non troverebbero un editore. Ma intanto le buone virtù della prosa, nelle sue molte possibilità, si manifestano. E proprio ascoltando i brani dell’attuale selezione si trovano tante maniere efficaci che non richiedono prolungamento, brillano, si difendono già per se stesse, magari sarebbe bello ricavarne un’antologia in cartaceo.
Forse il testo più acclamato, salutato da un applauso convinto, è stato quello di Turi Totore, anzi, mettiamola subito al plurale, in quanto egli si esprime attraverso una “galassia”, tanti casi di turbe psichiche, di sessualità perversa, pronta a manifestarsi in mille modi, strampalati, eccessivi, esilaranti, come per esempio la dendrofilia, che sta nell’inserire il proprio organo negli alvei delle piante, o o nell’accostarlo a ruvide scorze d’albero. Si raggiunge così l’intensità beffarda e dissacrante di un Manganelli, autore che non ha mai preteso elevarsi alla continuità del famigerato romanzo, meglio brillare in queste avventure di una sessualità libera, irridente, funambolica.
Tutt’altro partito segue Giuseppe Imbrogno, emerso nel recente Premio Calvino. Qui siamo nell’ambito serioso e stereotipato della narrativa aziendale, che segue i suoi ritmi obbligati, come il richiamo del dipendente che non ha rigato diritto e che viene minacciato con l’arma del licenziamento, Ma se l’umile travet è uno “straniero” che sfida le regole, e prende l’iniziativa, esigendo di essere licenziato sui due piedi per andare a rifugiarsi in una sua orgogliosa solitudine, fino all’autoestinzione? Qualcosa del genere può valere anche nel caso di Cinzia Dezi, col suo lungo percorso di rivolta contro le umili attività che sembrano essere le sole consentite ai giovani d’oggi, ma a anche in questo caso abbiamo il profilarsi e via via l’accentuarsi della rivolta, che la scrittrice, nella lettura del sto testo, accompagna molto bene con un aumento progressivo sia della velocità sia del tono sferzante, sibilante con cui pronuncia la sua protesta contro tutti i poteri forti. Non c’è invece protesta, nell’universo tratteggiato da Valentina Maini, siamo rinchiusi in una strana comunità di adulti e bambini, prigionieri di certi riti. Verrebbe da pensare alla classica forma dell’allegoria, sennonché riesce molto difficile stabilire quali siano i valori da leggere dietro questo assurdo rispetto di norme imperscrutabili. Conta il procedere collettivo, comunitario, in un clima di freddo terrore e conformismo che si stende uguale, compatto, senza smagliature. Molto interessante anche l’indagine che promuove Daniele Muriano, con un suo personaggio che conduce una improbabile inchiesta votata al nulla circa la figura di un padre, nell’atto stesso che se ne celebra il funerale. Nell’indagine viene scomodato perfino il nome di Dio, dato che in questo misterioso apologo non vige certo il divieto di non nominarlo, come atto blasfemo, ma al contrario abbiamo un Dio che va e che viene, chiamato in causa ma per essere subito dopo revocato, così come del resto è nella strategia di questo interrogante, sempre pronto a fare un passo avanti e uno indietro. Infine, Gessica Franco Carlevero è venuta a rimpolpare una tendenza già saldamente iscritta negli annali di RicercaBO, attraverso copiose testimonianze che ne sono già state portate. È una linea di minimalismo, abbinata a una desolata paratassi, di piccole annotazioni quotidiane che si susseguono monotone, minuti atomi di esistenza, micro-emozioni, sempre pronte a svaporare e a perdersi nel nulla. E dunque, anche in questo caso, non è possibile immaginare che si proceda verso un esito globale, verso un qualche finale, la prosa vale in sé, deve essere consumata, apprezzata proprio nella sua occasionalità. E dunque, cari autori, sia detto ancora una volta, consideratevi fieri di quanto avete fatto nelle pagine sciolte, nell’efficacia così raggiunta, non preoccupatevi di sollevarvi a tutti i costi alla dimensione pretestuosa e falsificante del romanzo, lasciate questo esito ai professionisti del successo affidato ai media, ai salotti televisivi, di cui Saviano è il leader incontrastato.