Il sontuoso, perfino troppo, torinese Palazzo Madama ha concepito un utile progetto consistente nel riservare una minima parte della maestosa suite di stanze, oppresse da ricordi e cimeli della passata grandeur storica, a esili mostre di attualità, come inserire un palpito di vita, un volo di farfalla, in un contesto altrimenti alquanto soffocante. E’ un’iniziativa che ricorda qualcosa di analogo intrapreso da un pari grado, il fiorentino Palazzo Vecchio, una cui minima porzione, una leziosa quanto remota Stanza dei gigli, è stata riservata di recente alla posa di una solenne scultura di Jeff Koons, numero uno dell’arte statunitense. Una corrispondente Veranda Iuvarriana è stata officiata a una funzione analoga, ospitando al momento, ma si spera che il rito si ripeta con frequenza, appena quattro lavori di Enzo Cucchi, ma intensi, degni dell’espressionismo sempre esasperato dell’artista marchigiano, uno dei magnifici cinque della Transavanguardia. Io sono stato avversario storico di quel movimento, ma solo nella misura che l’abile propaganda di Bonito Oliva, assecondata dalla pigrizia mentale di tanti supini seguaci, pretendesse che quello fosse stato il movimento di punta ed esclusivo negli anni ’70-’80, allo stesso modo che con pari pervicacia, e analogo seguito di caudatari passivi, Celant ha preteso che l’Arte povera fosse capace di assorbire in sé il meglio della nostra arte post-68. Avversario a questa pretesa supremazia della Transavguardia, cui com’è noto ho contrapposto i Nuovi-nuovi, con in testa il duo Ontani e Salvo, non ho però lesinato consenso e amicizia ai singoli protagonisti di quel gruppo, e tra di loro a Enzo. I capolavori che espone in quest’occasione sono una piacevole conferma. Sembra quasi che Cucchi, dribblando la maestà barocca delle stanze iuvarriane, sia andato ad ispirarsi all’altra metà del Palazzo immersa in un fosco sapore medievale estraendone volti, figure, pose. Per esempio, ci si mostrano due mani che si divaricano a morsa, forse per strangolare la presenza di un misterioso incappucciato, quasi una “maschera di ferro”, o un penitente per qualche indicibile colpa commessa e che ora deve essere espiata. Quella medesima persona, colpevole e ora sulla via dell’espiazione, si intravede in un’altra immagine, forse la Madama abitatrice di quelle stanze sontuose, su cui l’artista impone il suo nome, forse è proprio lei la Madama Cucchi cui si richiama la breve ma intensa mostra, forse è lo spirito di qualche illustre estinta che è rimasta a frequentare nottetempo quelle stanze, cui l’artista dà una corposa estrinsecazione, consentendole, questa volta, di scoprire il volto, cereo e lunatico. Ma forse l’immagine più riuscita è quella di un altro tristo abitatore di quelle stanze, equiparate a celle, dove è racchiuso un “mercante di Venezia”, un qualche sordido usuraio, o un candidato a un rogo purificatore. Lo sovrasta un nero, cupo copricapo d’epoca, mentre la pelle ci appare tinteggiata di un colore verdognolo, quasi a distillare da sé acidità, ostilità, spirito perverso, anche perché da una guancia muove una specie di protesi, di protuberanza inviata a minacciarci, a raggiungerci, o invece siamo noi a portare una insidia contro quel volto, ad allungare le dita per afferrarlo, per infliggergli qualche ferita? Infine, c’è pure una quarta opera, di natura tridimensionale, una scultura realizzata in tiglio, fragile eppure tenace nello stesso tempo, quasi un serto, una corona che l’una o l’altra di quelle diafane apparizioni potrebbe indossare a mo’ di copricapo, o invece di sottile strumento di tortura e di punizione. Siamo insomma in una cella degli orrori e delle apparizioni, scaturite, come dicevo, dal lato oscuro, notturno, medievale del Palazzo, colmo di orrori, di temibili segreti accumulati nei secoli. Naturalmente, sperando che quella cella preziosa ospiti presto altre testimonianze, ne potrà mutare del tutto il tono e il carattere.
Madame Cucchi, Torino, Palazzo Madama, Veranda juvarriana, fino al 1° febbraio.