Arte

I due decenni inarrivabili di Picasso

Le romane Scuderie del Quirinale ci danno una di quelle mostre essenziali che le pongono alla testa di una graduatoria nazionale, in imprese del genere, a gara solo col Palazzo reale di Milano. Questa volta si tratta della rivisitazione del decennio 1915-1925 del grande Picasso, giustamente collocato “Tra Cubismo e Classicismo”. Basterebbe rivolgesi al precedente decennio, magari con partenza un po’ ritardata dal 1906, per avere in compendio l’intero percorso dell’artista spagnolo. Poi ci sarebbe ancora uno scampolo di anni di grande creativià, fino al 1930, quindi il passaggio a una fase eclettica, di risulta, che si potrebbe anche mettere all’insegna di un gigantesco “Le roi s’amuse”, di un enorme talento che coglie le schegge, i residui della sua officina, seppure non intristendosi, come tanti suoi confratelli, in una manieristica riedizione dei propri capolavori.
E’ curioso notare che questa secondo decennio si annuncia quando il precedente sembra essere arrivato al suo esito estremo, attraverso il cosiddetto Cubismo sintetico, in cui spariscono le ultime tracce presenze di oggetti riconoscibili, sostituiti da una geometria ad alta voltaggio intellettuale, quasi si potrebbe dire “concettuale”. Ma quei nudi tralicci sentono il bisogno di sensibilizzarsi in qualche modo, e dunque assumono brandelli di carte da parati, o di tessuti in un modo o in un altro decorativi. Ci sono perfino dei punteggiati di spirito divisionista, e le travature, le ancora impeccabili geometrie pretendono di richiamarsi a maschere della commedia dell’arte, per esempio a degli Arlecchini, anche se per il momento assenti, fuori stanza, in attesa di essere chiamati davvero in scena. Si dà da questo momento un parallelismo col nostro artista che da tempo avevamo trasferito d’ufficio sulle rive della Senna, Gino Severini. Anche lui, negli stessi anni, ricorre a un uso combinatorio di motivi cubisti e futuristi, ma trattandolo come enormi collage di carte colorate, quasi di impacchettatura elegante di leccornie per il palato, sono opere, insomma, già decise a marciare verso il clima confortevole degli Arts Déco. E forse è proprio il nostro artista a rompere gli indugi, a capire come quell’occhieggiare a perdute eleganze non è più sufficiente, bisogna fare un passo più risoluto verso l’antico. Nasce così forse il prototipo dell’intera stagione del richiamo all’ordine o della riscoperta del museo, il Ritratto che Severini dedica alla Moglie Jeanne, come una ritrovata Madonna che tiene in braccio il figlioletto, purtroppo deceduto nella realtà della coppia. Picasso ha bisogno di un incentivo, un viaggio a Roma, dove anche lui insegue la sua Madonna di quegli anni, Olga Koklova, impegnata nei Balletti russi di Diaghilev. In Italia lo Spagnolo scopre il fascino del nostro folclore, quasi in un anticipo di Pop Art, col tripudio delle maschere, delle vesti coloratissime, di copricapi ancor più favolosi. In quel momento decisamente “popolare” Picasso non disdegna neppure di rendersi utile nel concepire scene e arredi per quelle prestazioni teatrali, ma il meglio viene pur sempre quando agisce per sé, per la propria officina più esclusiva. Se si vuole, in quella fase delicata e coraggiosa l’artista adotta due soluzione opposte: o sgonfiare la “macchina” cubista, con tutti i suoi ingombri plastici, e affidarsi a un tracciato lineare esile, filante, vedi i ritratti di Diaghilev stesso, o di Stravinsky, in cui però sopravvive qualche residuo ricordo delle scheggiature cubiste, come rivelano certe durezze e spigolosità inserite a inceppare la fluidità del tracciato lineare. Se no, la soluzione opposta, un gonfiore eccessivo, quasi per avvisare lo spettatore, stupito di quei giri di valzer, che capisca, proprio per l’eccesso della volumetria, che l’autore non fa del tutto sul serio, strizza l’occhio, avverte per primo che sta effettuando un pompaggio estremo dei corpi, fino al limite di rottura. Tutto questo, in mostra, risponde alla sezione “La reinvenzione del classico”, che si raccomanda proprio per l’eccesso smodato, volutamente esagerato con cui il recupero viene condotto, con quei volti tumefatti, dove gli occhi risultano quasi schiacciato dal gonfiore delle gote, e le braccia si fanno gigantesche, dilatate in eccesso. Infine, il capolavoro assoluto, in questa direzione, è dato dalle “Due donne che corrono sulla spiaggia”, dove non si capisce davvero come riescano a muovere nella corsa i loro corpaccioni immani, tanto è vero che, nella figura a sinistra, la testa non regge a quella spinta in avanti, sembra spezzarsi e ricadere indietro. Al confronto, le figure maschili (“Il flauto di Pan”) non riescono a gonfiarsi fino a quel punto, ma si ergono monumentali, pesanti, stanti come colonne. A quel modo, Picasso schiaccia tutti i Nostri, Carrà, Sironi eccetera, impegnati anch’essi, ma in misura più timida, su quella medesima via di richiamo ai “valori plastici”. Ma non è finita, dato che tra i due estremi, della riduzione in pianta e di una compiaciuta, ostentata volumetria, il divino Picasso sa fermarsi anche a una soluzione intermedia, di offrirci i corpi a una specie di grado zero, di realismo para-fotografico. L’eroe tipico di questa soluzione è il figlio Pablo, sorpreso al naturale, ma subito impacchettato in una confezione in cui l’artista ritrova tutte le eleganze decorative degli imballaggi già sperimentati poco prima del Cubismo sintetico. In questo caso l’artista scala in giù le marce, si vuol far perdonare le puntate tridimensionali andando a rifugiarsi nelle planimetrie, suggerite dagli abiti del fanciullo, ligi alle cifre delle maschere, di Arlecchino, di Pierrot. Questa dialettica tra innovazione e ritorno al museo sarà poi altre volte sperimentata, dall’arte del Novecento e oltre, ma nessuno lo saprà fare con tanta inarrivabile maestria.
Picasso tra Cubismo e Classicismo, 1915-1925, a cura di Olivier Berggruen, Roma, Scuderie del Quirinale, fino al 21 gennaio. Cat. Skira.

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