La visita virtuale di questa domenica la compio alla GAMEC di Bergamo, coi limiti che certo inficiano la mancanza di un contatto diretto, ma con una buona possibilità di ragionare nella sostanza sui contributi dell’artista presentato. Intanto, vale la pena di commentare il titolo stesso di quel museo, che sorge proprio di fronte alla Accademia Carrara, gloriosa sede di una collezione di maestri che fa onore alla quella città. Lo spazio antistante, ricco di numerose sale, crede di aver risolto un annoso problema relativo alla lite tra il moderno e il contemporaneo, che in realtà stando alla cronologia dei manuali di storia, non dovrebbe neppure esistere, in quanto il moderno si fermerebbe alla fine del Settecento, per essere poi sostituito appunto dal contemporaneo, termine pressoché sinonimo, cosicché quasi nessuno lo accoglie come alterrnativo, e dunque il “moderno” regna sovrano anche in Musei che se ne fregiano, come la GAM di Torino o addirittura la GNAM di Roma, invece di inalberare la “C”, dato che in effetti si occupano di arte dell’Otto e Novecento, e dunque, sempre stando ai manuali, relativa al “contemporaneo”. La GAMEC di Bergamo ha tentato un compromesso, accogliendo una proposta intermedia, ma insostenibile, per cui il “moderno” si spingerebbe fino alla metà del secolo scorso, per poi essere sostituito finalmente dalla controparte. Pertanto, una mostra dedicata a un artista russo dei primi del Novecento quale Malevic, tenuta molto bene dall’istituto bergamasco, apparterrebbe al “moderno”, mentre ovviamente, e per venire al tema di oggi, l’attuale rassegna dedicata all’artista statunitense Jenny Holzer (1950) sarebbe tipicamente “contemporanea”. Ma al di là di queste sofisticate questioni di etichetta, quello che conta è la buona regia che la GAMEC ha avuto, nel passare di mano dalle direzioni di Vittorio Fagone e di Giacinto di Pietrantonio fino all’attuale di Lorenzo Giusti, che ha il merito di presentarci una valida campionatura dell’artista statunitense, in cui è da vedere una valida erede del clima del ’68, contrassegnato, tra le tante innovazioni, dall’aver introdotto anche l’arte “concettuale”, sdoganando il materiale verbale, vietato invece per lunga tradizione rinascimentale, o “moderna” in genere, alle arti visive, riammesso con le avanguardie storiche grazie al solito Futurismo, ma in versione “micro”, di carte e volumi di ridotto formato, come stavano a documentare le varie forme di poesia concreta, visiva, simbiotica e così via. Invece il ’68 ha dato alle formazioni verbali la piena dignità di andare a occupare intere pareti di gallerie, si pensi alle frasi sentenziose di un Robert Barrty e di un Lawrence Weiner, ripresi a loro volta nel compendio “uno e trino” fornito da Joseph Kosuth. A lui si deve lo scatto in più, di affidare i campioni di scrittura alle possibilità sferzanti fornite dai tubi al neon, e dunque tali da concedere alle avventure “mentali” uno sfocio di dimensioni ambientali. La nostra Holzer ha fatto tesoro di tutto ciò, con una mossa ulteriore, di avvalersi anche di quelle tecniche di scrittura mobile, molto usate sia dalla pubblicità che da tutte le forme di segnaletica di uso pratico, con le lettere che si accendono per un momento e poi subito spariscono, così da dotare le espressioni verbali anche del bene della mobilità, dello scorrimento rapido. Col che se ne accresce anche senza limiti la possibilità di sfociare in frasi, sentenze, ricordi, ammonimenti, ben oltre la staticità monumentale che i “concettuali” della prima ora assegnavano alle loro lettere. A quel modo la Helzer ha acquisito un potere enorme di esternazione, confessione, diario tra il pubblico e il privato, compiacendosi sia di pronunciare massime improntate a una “political correctness”, che lo diviene anche in senso ecologico, di igiene di vita e di comportamento, o che invece si compiace di sussurrarci piccole verità domestiche, senza falsi pudori. Col che le procedure di Jenny sfociano in quella che a suo tempo era stata denominata “Narrative art” e di cui un’artista francese, Sophie Calle, viene considerata in genere cultrice superba e inarrivabile, anche perché sa fare uso delle varie risorse ammesse da questo genere, e dunque la scrittura viene collegata al materiale fotografico e ad appunti di diario. Il tutto, però, se non sbaglio, in versione statica, mentre a caratterizzare l’esercizio della Holzer ci sta la mobilità consentita dagli attuali sistemi pubblicitari. Naturalmente il tutto presuppone che le varie prestazioni della nostra artista si tengano nell’oscurità, ma animata, accesa, sia dalla proiezione di frasi in formato monumentale, sia dallo scorrimento di piccole battute, oltretutto decise a contestare il ritmo orizzontale–verticale con cui si svolgono in genere le comunicazioni verbali. Infatti queste sue sommesse insinuazioni possono collocarsi anche con andamento sghembo, in obliqua. Insomma, pur in un arco di possibilità abbastanza rigido, dettato dalle forme stesse di cui questa produzione artistica si vale, la Holzer fa di tutto per darle varietà, mobilità, e in definitiva anche mistero, come essere invitati a penetrare in stanze segrete per effettuarvi accurate perquisizioni, alla ricerca di messaggi più o meno criptici.
Jenny Holzer, Tutta la verità, a cura di Lorenzo Giusti. Bergamo, GAMEC, fino al 1° settembre.