La Tate Britain, a Londra, dedica un corposo omaggio a David Hockey (1937) per festeggiare i ben cinque decenni della sua intensa attività pittorica, che forse, in questo momento, lo pongono alla testa della squadra della Pop Art inglese, anche per la scomparsa di competitori più anziani di lui. A sua volta, conviene proprio riconoscere alla Pop in salsa britannica, oltre che di essere stata iniziatrice del fenomeno, di avere avuto il coraggio, o il limite, di coltivare più da vicino le vie della pittura, anche se pur sempre in stretta contiguità con la fotografia. Ma in qualche misura la sacra misura della superficie l’ha risucchiata, a differenza dei cugini statunitensi, più propensi invece sia a invadere la terza dimensione, sia a valersi di formati giganti. Insomma, da un lato, sull’isola, un’arte “da camera”, dall’altro, negli States, un’arte declamata in pubblico
Ma tornando a Hockney, egli rappresenta al meglio una simile vicinanza all’immagine dipinta, magari a gara con una presenza eccentrica e isolata, negli USA, come il più anziano rispetto a lui, di un intero decennio, Alex Katz. Per parlare del David ora celebrato, mi posso riallacciare a certe osservazioni che proprio in questa sede svolgevo a proposito di Matisse, lamentando un eccesso di scarnificazione progressiva cui il pur grande pittore francese aveva via via ceduto, forse rinunciando troppo al caposaldo “occidentale” della rappresentazione, e prestando ascolto in eccesso ai criteri dell’Estremo Oriente, diventando cioè un convinto “japonard”. Tanto che, a riscontro, indicavo l’opportunità di rivalutare il rivale Pierre Bonnard, che invece gli era stato posposto perché ritenuto ancora troppo coinvolto nella fisicità di valori tonali e atmosferici, non sufficientemente decantati. Hokney, invece, è perfetto, da un lato, nel diventare più comprensivo di larghe fette di spettacolo ambientale, pronto anche a valersi di schemi prospettici. Infatti se volete abbracciare vasti ambienti, di piscine, giardini, balconate eccetera, o anche di interni, dovete tornare a un qualche residuo o sopravvivenza di linee di fuga, di trapezi spaziali, anche se debitamente schiacciati e tracciati a fior di pennello. Ma da un altro lato è anche opportuno evitare di cadere in tentazioni espressioniste, o di greve naturalismo di ritorno, quali invece inficiano, rendono insopportabili, troppo sporche, troppo pesanti le tele pur tanto acclamate di Lucian Freud. Insomma, in Hockney sussiste un bell’equilibrio tra interni o esterni giustamente tramati, e tinte leggere, distese, in ricordo di certi paradigmi centrali nell’arte contemporanea, dall’”à plat” di Gauguin alla “flatness” di Murakami, con l’aiuto che su una via del genere viene dalla fotografia, ma ancor più dalla grafica pubblicitaria, da sempre diffidente degli ingombri plastici e decisa invece a distendere, a spianare la visione. Non per nulla uno dei temi preferiti da Hockey è quello delle piscine, anche per effetto del suo porsi come “artista dei due mondi”, nato e formatosi in Inghilterra, ma pronto a ricevere committenze e prebende in California, dove come è ben noto gli specchi azzurri delle piscine si accendono ad ogni passo, maculando il panorama urbano e suburbano. L’acqua per sua natura è un elemento mobile che evita di fare massa compatta, mostrandosi invece pronta a ospitare al suo interno i motivi ondulati scaturenti dal soffiare delle brezze, dall’accendersi di mille riflessi, magari ancor più incrementati dagli spruzzi delle fontanelle alimentatrici, che si aprono come le corolle di una vegetazione trasparente. Beninteso, i medesimi spruzzi dell’irrigazione tramano di sé anche il verde fresco e rugiadosi dei prati, altro motivo congiunto a quello delle piscine. Tanta felicità cromatica e descrittiva va poi a invadere terrazze e verande, infine penetra nelle stanze, ad allietare le figure umane, anch’esse delineate con silhouettes incisive ma leggere, fino a confondersi con arredi e tappezzerie Però, nel dispiegare un universo antropico, certamente il concorrente Katz sa procedere in modo più insistito e integrale, con zoomate ravvicinate. Mentre la macchina da presa, o la visione del nostro artista preferisce arretrare, afferrare i suoi soggetti in campi lunghi.
David Hockney, Londra, Tate Britain, fino al 29 maggio.