L’ultimo venerdì di gennaio è ormai per me consacrato al richiamo in scena di uno dei protagonisti delle mie “Settimane internazionali della performance”, tenutesi dal 1977 al 1982 alla Galleria d’arte moderna di Bologna, quando era nel quartiere fieristico, e toccava proprio alle varie edizioni d Artefiera di allora fornire il necessario finanziamento, Anche oggi questi incontri si pongono nel quadro di Artcity, a sua volta collegata alle Artefiera dei nostri anni, mentre il limitato budget viene da Unibocultura. Non avrei mai potuto realizzare, allora, questi eventi, senza la piena collaborazione di Francesca Alinovi e Roberto Daolio, purtroppo in seguito scomparsi, e dunque è anche un modo di celebrarne la memoria. Il primo di tali incontri è stato dedicato a Marina Abramovic, che ponendosi nuda, assieme a Ulay, il compagno di allora, sulla porta d’ingresso della GAM aveva segnato la performance di maggior successo, ma al pari di un’altra di diversa natura, che aveva visto protagonista l’austriaco Hermann Nitsch, pronto a occupare Santa Lucia, allora una chiesa sconsacrata e allo stato di rudere, dove svolse una “azione” della durata di quattro ore. Negli anni precedenti non ero riuscito a riavere tra noi l’artista austraico per diverse ragioni, suo stato di salute, suoi precedenti impegni, fino al venerdì scorso 27 gennaio, sempre, come le altre volte, nell’Auditorium della Sala Borsa. Ad averlo finalmente con noi è intervenuto l’aiuto poderoso di chi da sempre gli è stato al fianco e lo ha gestito in ambito italiano, Peppe Morra, dalla sua Napoli che proprio con persone del suo calibro conferma di essere una capitale della cultura. Ma diciamo pure che la ragione principale per cui ho tardato a rivolgermi a questo numero uno, di allora e di oggi, era il timore della barriera linguistica, io non parlo tedesco, Nitsch, pur capendo l’italiano, non si sente in grado di usarlo in pubblico, la mediazione di un traduttore, che venerdì è stata fornita da un mio collega Roberto Rizzo, non ha funzionato nel modo migliore. E allora io mi sono sentito autorizzato a prendere in mano l’andamento del colloquio, ma sulla base di un prezioso materiale registrato che scorreva su maxischermo ripercorrendo i passi principali di una lunghissima carriera, iniziata fin dai primi anni ’60. Questa partenza dalle origini ci ha mostrato un Nitsch impegnato da subito in un ”action painting”, con l’inevitabile collegamento a Pollock e al suo camminare sulla tela collocata sul pavimento, facendovi sgocciolare il colore da un barattolo. Se si vuole, c’era subito una prima modifica, in quanto Nitsch preferiva porre la tela in verticale, per dare, ritengo, fin dall’inizio il senso di una implacabile caduta, o sgocciolio del sangue dal corpo di una vittima sacrificale appesa in alto. Infatti il suo rosso, più raramente alternato al giallo al verde al nero, non è affatto da intendersi nel senso di un monocromo. Niente in comune, per esempio, con il francese Klein, con Yves le monochrome, che col suo blu voleva suggerire un’atmosfera di estasi celestiale; e neppure col bianco di Manzoni, inteso a suggerire un atto di azzeramento. E a maggior ragione niente in comune con certi monocromi frivoli ed estetisti come quelli di Ettore Spalletti. Al contrario, dal repertorio dell’Informale classico, da cui il Nostro partiva, conviene ricordare subito Jean Dubuffet e la sua nozione di colore-materia. Questo il punto, il rosso nitschiano si riferisce al sangue, tanto che ben presto egli ha portato in scena corpi di pecore, quarti di bue, e grovigli di viscere, proprio per mostrare da dove venivano i suoi rossi malati, pronti poi a essiccarsi mutandosi in macchie spente. In altre parole, il “painting” è venuto meno, come lo stadio di un missile quando ha esaurito il suo compito, che è stato di mettere in orbita l’azione, da cui il vocabolo tipico per designare il movimento di cui Nitsch si è posto a capo, l’Azionismo, in definiva una variante o una diversa faccia del continente più vasto e generico della performance. Ma subito con qualche distinzione da fare. A differenza dei suoi colleghi di quel movimento, come in particolare Günter Brus e Rudolf Schwarzkogler, Nitsch non ha mai praticato l’autolesinismo, non ha mai fatto sgorgare sangue da se stesso, il che lo ha distinto anche dalle pratiche di molti autori della performance, come la stessa Abramovic. Più ancora, non ha mai ucciso animali in scena. Ovvero, la sua prassi è sospesa tra due estremi, per un verso, il sangue e gli altri elementi corporali sono usati come materiali “già pronti”, dotati quindi di una sospensione virtuale. Per esempio, se ci rifacciamo proprio all’Azione bolognese del ’77, l’artista ci aveva chiesto di procurargli cinquanta litri di sangue bovino e non so quanti chili di viscere animali, ma tutti presi dal pubblico macello, e non certo prodotti in loco. D’altra parte, è pur vero che egli vuole una tangibilità, una stretta materialità di queste componenti animali, vuole immergere le sue mani entro gli ammassi di budelle, allargare le ferite, gli squarci, pescarvi all’interno. Un’altra contraddizione è che egli si accinge a tutto ciò magari indossando una candida tunica, da sacerdote che si appresta a celebrare un rito. Naturalmente, bisogna subito rifarsi allo sfondo teorico di queste azioni, affidato a un testo chiave, l’”Orgien-misterien Theater”. Il tutto, infatti, mira a ricreare, qui e ora, un clima orgiastico, di festa dionisiaca della carne, che deve riportarci a Freud, forse, a mio avviso, il referente principale di questo universo. All’inizio di tutto, ci ricorda il grande Sigmund, c’è quella enorme centrale energetica che si può designare in tanti modi, ma in sostanza concordi: eros, libido, Es, principio del piacere, del resto prontamente ribaltabili nel loro contrario, in un principio di thanatos. Questa è l’orgia primaria cui le azioni nitschiane ci invitano, e che egli stesso celebra nella via più immediata e realistica, contro tutte le censure che il principio opposto, sempre secondo Freud, dell’Ego, delle autorità, del perbenismo, del senso comune della decenza e così via, sono sempre pronte a opporre. Tanto che in numerose occasioni queste Azioni devono essere messe al riparo dai rigori della legge e trasformate in eventi privati sottratti al controllo della polizia. Noi stessi, nel ’77, per evitare che quella enorme “messa nera” potesse configurarsi come un vilipendio alla religione di stato, poiché allora questo era lo status della religione cattolica, ci mettemmo sulla porta di Santa Lucia dando a ogni visitatore un tesserino di socio di un club privato.
Ma, venendo al nucleo centrale di questi problemi, le azioni di Nitsch sono una irrisione, o quanto meno un vilipendio del rito cattolico della messa? Non credo proprio, sono invece un porsi su quella stessa lunghezza d’onda, un combattere ad armi pari. Dobbiamo infatti ricordare che la “messa” altro non è che l’invio a Dio Padre di un’offerta di una vittima illustre, del Figlio, attraverso i suoi “veri” corpo e sangue, che compaiono sull’altare secondo un effettivo fenomeno di transustanziazione. Non si tratta di allusione simbolica o metaforica, ma di reale incarnazione, il pane, anche poi ingentilito nell’ostia, è proprio il corpo di Cristo, con invito a nutrircene, “prendete e mangiate”, e pure il vino, che il sacerdote è tenuto a bere, diventa davvero sangue. Curiosamente, seppure attraverso un dialogo non facile e scorrevole, Nitsch è sembrato non accogliere in pieno questo mio paragone, avanzato, sia ben chiaro, da ateo, però ammirato per la forza, la cogenza di quella identità proclamata. Al contrario, l’artista austriaco ha preferito dichiarare una sua discendenza dalla tragedia greca, che però, se non sbaglio, evitava di portare in scena i delitti, il sangue. Gli scannamenti avvenivano nel retroscena, per essere poi dichiarati al pubblico mediante lo strumento depurante della enunciazione linguistica. Ma Nitsch ha ragione quando pone l’accento sul concetto che è al centro della Poetica di Aristotele, e della tragedia che ne è il nocciolo portante, il concetto della catarsi, della purificazione che non si consegue allontanandoci timorosi e pudichi dagli eccessi, bensì affrontandoli, sperimentandoli, anche se attraverso quel livello virtuale pur sempre rispettato da Nitsch. Il tutto si può compendiare ripetendo la ben nota massima, “oportet ut scandala eveniant”. Mentre io aggiungevo queste mie riflessioni, il maxi-schermo continuava, fedele e ossessivo, a trasmettere le tante azioni del repertorio nitschiano, le tante crocefissioni, ovviamente anch’esse virtuali, e immersioni delle mani in ammassi di carne. Azioni anche accompagnate da opportuni complementi sonori, di laceranti fischietti, o di reboanti bande di ottoni, così da rispettare un altro dei massimi campioni della cultura di lingua tedesca, Wagner e la sua predicazione a favore di un’opera d’arte totale, di confluenza di tutte le arti.