Confesso che mi inoltro sempre con qualche disagio nel milanese Museo del Novecento. La nostra capitale dell’arte contemporanea ha atteso decenni prima di dotarsi di un museo ad hoc, ma infine ha barattato una indubbia centralità con una sede angusta, strappata con le unghie, in cui mancano giuste distanze per contemplare le opere, e ci si deve arrampicare su scale mobili strette e troppo rapide. Poi, in alto, si deve affrontare una avventurosa passerella che collega gli spazi stretti dell’Arengario con il secondo piano del Palazzo Reale. Mi sono vantato di recente, commemorando la scomparsa dello statunitense Ron Gorchov, di essere stato forse il promotore ad usi artistici di quella serie di stanze, nel ’79, con la mostra Pittura-ambiente, sottraendole a bassi usi burocratici cui fino a quel momento erano riservate. E dunque, diciamolo pure, percorro con qualche emozione quel passaggio, tra grati ricordi ma anche un senso di vertigine, se guardo in basso. Poi però mi gratifica una ottima mostra di Franco Guerzoni, che si è messo ormai alle spalle l’epoca post-sessantottesca quando era d’obbligo fare ricorso alla fotografia. E lui lo faceva allegando ai suoi lavori delle immagini di siti archeologici, da cui ricavava una passerella, anche in questo caso, per passare dal nudo e freddo documento fotografico a qualche traccia di colore che da quei muri emanava. In fondo, era un modo per ritrovare una invenzione geniale del film di Fellini “Roma”, quando durante un interminabile scavo di una linea metropolitana il grande regista immaginava che gli operai avessero scoperto una cripta con arcani dipinti alle pareti, ma pronti a dissolversi nel nulla a contatto con l’atmosfera. Il nostro Guerzoni, registra un momento terminale, quando di quella manifestazione cromatica resistono solo minime tracce, screziature, sbavature, ma colme del sapore di quanto stava alle loro spalle. A ricordo del suo passato di scavi archeologici, l’artista non manca di attaccare a quelle pareti anche delle mensole, pronte a ospitare pure qualche residuo materiale, qualche coccio o frammento, il tutto immerso in una sottile elegia dedicata a un mondo scomparso, a tesori andati in fumo, di cui però sussistono tracce delicate e struggenti.
Terminata quella visita senza dubbio gratificante, affronto la discesa, con divieto di utilizzare l’ascensore, chissà perché. E necessità di affidarmi a scale mobili troppo rapide che rischiano di travolgermi. In basso, scopro due opere di un altro artista a me caro, Loris Cecchini, cui è andato il Premio annuale di ACACIA, l’associazione di collezionisti privati guidati da Gemma Testa. Se Guerzoni va sulle tracce di un passato favoloso, Cecchini invece gioca la carta dei futuribili, o dei traguardi più avanzati della scienza. Uno dei due lavori ingrandisce qualche frammento di minime particelle fisiche, il percorso spinato di un DNA, o magari anche la magica corona di ferro di qualche virus minaccioso. E’ insomma un tuffo nel microscopio, nelle ultime frontiere della materia. Ma in un altro lavoro l’artista rende omaggio all’altra versione delle energie occulte, quella che ne vede il propagarsi a onde, molli, morbide, che depositano le loro scie su uno strato di sabbia, al pari del movimento delle maree. E in questo caso compare anche un confortante accompagnamento cromatico, il colore caldo, denso, pregnante della sabbia.
Franco Guerzoni, L’immagine sottratta, a cura di Martina Corgnati. Milano, Museo del Novecento, fino al 24 febbraio.
Loris Cecchini, Premio ACACIA 2020.