Arte

Griglia, una pittura di grande intensità

Sono  entrato in contatto con l’arte di Oscar Ghiglia (1876-1945) nei primi Sessanta, grazie a un suo sostenitore quale Giuliano Matteucci, allora già sul punto di strappare a Dini la supremazia nel campo dei Macchiaioli,  che ben volentieri passava le sue mostre a un gallerista di Bologna, Paolo Stivani, mio amico, purtroppo poi smarritosi  per strada fino a una morte precoce. Mi poteva mettere in sospetto quella circostanza di un Ghiglia proclamato allievo di Fattori, il che poteva farmi sospettare di trovare in lui un post-macchiaolo, squadra infausta di ripetitori tardivi di quanto di valido risiedeva in Fattori e compagni. Ma invece mi colpì, e mi piacque subito, la solidità di  tessuto pittorico di cui  Ghiglia era capace, e una scelta di temi che prescindevano quasi del tutto dal paesaggismo, dalle vedute all’aperto, tipico terreno di battaglia dei Macchiaioli e  dei loro seguaci. Ghiglia invece è uno squisito pittore di interni, di cui sorprende sia gli abitanti, gli esseri umani, sia i loro arredi e complementi, soprattutto di nature morte. E’ giusto collocarlo nel nostro Novecento, anche se non credo che ne abbia mai fatto parte formalmente, ma allo stesso modo non vi è stato incluso, se non sbaglio, l’artista che gli va più vicino, Cagnaccio di San Pietro, e gli si addicono anche i due Broglio, Mario e Edita, nonché i migliori rappresentanti della prima Scuola romana, con un Donghi in prima fila. Si tratta insomma di un iper-realista, in cui l’immagine fora lo spazio, postula addirittura un prolungamento in plastica, fino a far pensare a certe creazioni “più vere del vero” di tempi a noi più vicini, le gommepiume di Gilardi, i  materiali sintetici di un Dwane Hanson, Tanta è la forza, l’evidenza della massa corvina di capelli che una fanciulla agita, sciorina, spingendola ad occupare lo spazio, quasi in misura monumentale. E c’ è il coraggio di quel bambino seriamente intento a mettere in bella mostra un modellino di nave. Ma soprattutto il meglio di Ghiglia si manifesta nelle nature morte, modellate a pieno volume, come sfere compiaciute della loro rotondità, ben evidenziata dai lumetti, come se fossero fatte non di sostanza vegetale ma di qualche materiale prezioso, vetro, cristallo, ceramica. Del resto, a completare il loro fascino, ci sta pure l’accompagnamento delle stoviglie e delle tovaglie su cui quei corpi plastici sono posati, con relative fasce policrome. Non parliamo poi dell’evidenza delle sedie, che balzano quasi fuori dal quadro per la piena consistenza che l’artista affida ai loro scheletri, infiammandoli di  calda luce, e dando loro una sostanziale precedenza rispetto ai  corpi umani che vi sono appoggiati, come se si trattasse di un supplemento delle loro colonne vertebrali. Insomma, un messaggio di forte presenza ed evidenza, che può consuonare addirittura con creazioni dei nostri giorni, penso addirittura a Koons e ai suoi fiori in ceramica. Manca solo il ricorso a un ingrandimento, in quanto Ghiglia era fin troppo consapevole dei limiti che si addicevano allora a chi praticava, con modestia ma con intimo orgoglio, il mestiere della pittura.

Oscar Ghiglia, a cura di Leonardo Ghiglia e altri. Firenze, Palazzo Medici Riccardi, fino al 13 settembre. Catalogo Sillabe-

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