Letteratura

Giuda, interpretazione maiuscola di Favino

E’ giusto che, dopo aver dedicato domenica scorsa un opportuno omaggio al film di Almodovar, ora mi occupi dell’unica nostra partecipazione all’ultimo festival di Cannes, il “Giuda” di Marco Bellocchio, al confronto assai meno fortunato in quanto venuto via a mani vuote, senza alcun riconoscimento. E invece il protagonista principale della pellicola italiana, Pierfrancesco Favino, poteva meritare il premio come miglior attore, se non avesse avuto la sfortuna di incontrare sulla sua strada un mostro sacro come Antonio Banderas, peraltro non a una delle sue migliori interpretazioni. Se si vuole, il film di Bellocchio è vittima di una contraddizione che però risulta inevitabile in queste occasioni. Ovvero succede che quando ci si occupa di tristi figure di delinquenti incalliti non ci si trattene dal conferire loro una stazza superlativa, semplicemente affidandone l’interpretazione ad attori di prima grandezza. Ma che altro potrebbe fare un regista desideroso di portare il suo lavoro al successo? L’esempio trascinante in materia è fornito dal “Padrino” di Coppola, dedicato a un personaggio tutt’altro che stinco di santo, ma reso grandioso, epico, col fatto di averne affidato l’interpretazione a tre attori di prima grandezza, chiamati a rivestire quella parte in successione, da Marlon Brando a Robert De Niro a Al Pacino. Venendo alla narrazione fornitaci da Bellocchio, questa forse è stata troppo scrupolosa per quanto fedele ai dati di cronaca, soprattutto nell’inseguire i primi tempi dell’eroe di mafia, con la sua numerosa famiglia e le vicende dei primi figli, vittime a loro volta della criminalità organizzata. E certo la tela di questo anti-eroe è assai ingarbugliata, nei suoi vari passi, la fuga in Brasile per sottrarsi alla vendetta già allora annunciata, i tentativi di evitare l’estradizione in Italia, dove di nuovo si sarebbe trovato a rischio della vita, fino a simulare un suicidio o altri malanni. Ma finalmente quando il protagonista decide di fare il “pentito” rendendo ampia confessione dei suoi crimini e consentendo di mandare alla sbarra un centinaio e più di ex-complici, siccome il tema si fa chiaro e definito, anche la narrazione del film diviene ferma, precisa, incalzante, con le scaramucce tra il “pentito” e i delinquenti alla sbarra, che si vendicano con offese, lazzi, attacchi verbali. E validi risultano pure i contradditori a tu per tu, in particolare tra il “pentito” e il massimo esponente della malavita organizzata, il Riina, Purtroppo, mente nel suo film Almodovar riesce a porre accanto alla sua proiezione autobiografica degli attori pur essi di prima grandezza, un bravissimo ragazzino come suo alter ego, una superba Penelope Cruz come sua madre, altrettanto non riesce a Bellocchio. Debole e macchiettistico, con ben poca rassomiglianza, l’attore che impersona Falcone e conduce il suo dialogo col pentito. Unico altro attore di livello, Luigi Lo Cascio, cui però spetta una parte secondaria, da pentito-bis e di minor peso. E dunque, il film resta affidato all’interpretazione maiuscola di Favino, col rischio già segnalato che questa renda fin troppo grandiosa la sua posizione, così da tributargli un involontario omaggio, col motivo, posto al centro dell’intero film, che lui non fu un traditore, un Giuda, ma al contrario un difensore dei vecchi principi della mafia del buon tempo antico, quando non si uccidevano le donne e i bambini. In scala ridotta, nei confronti di Buscetta può scattare il fatale interrogativo manzoniano, fu vera gloria o semplicemente un furbo che, vista la mala parata, si limitò a tradire i principi per salvare la vita?

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