Conviene lodare senza riserve il Museo medievale del Comune di Bologna, nella persona del Direttore Massimo Medica, col determinante concorso esterno di Daniele Benati, dalla cattedra universitaria che gli consente di spaziare tra medioevo e modernità, per essere riusciti a organizzare una mostra dedicata a Giovanni da Modena, detto giustamente “Un pittore all’ombra di S. Petronio”. Infatti il maggior titolo d’onore di questo artista sta nell’aver eseguito, nella cappella Baroncelli di S. Petronio, il ciclo dei Magi, il più vasto conservato in quel mastodontico edificio. Il Museo ha funzionato come cellula di partenza e di raccordo, con le poche tavole o pagine di codici miniati che si possano assegnare con sicurezza a questo Maestro (1379-1454/5), ma anche con una proiezione ad alta fedeltà del capolavoro nella chiesa vicina, quasi da risparmiare al visitatore di recarsi ad ammirarlo di persona, e si sa che questi facsimile, potendoli contemplare da vicino, si rendono perfino più efficaci rispetto a una ricognizione in loco, a inevitabile distanza e nella semioscurità degli interni. E’ vero che appunto, essendo scarso il catalogo di questo artista, pochi sono stati i suoi dipinti da far venire dalle loro sedi, e dunque contenuto il costo dell’esposizione, così da rendersi possibile nonostante le esose risorse che un assessore alla cultura del Comune quale Ronchi, in tutt’altre faccende affaccendato, riserva alle arti visive, tirando un respiro di sollievo perché la Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna, saldamente nelle mani di Fabio Roversi Monaco per quanto riguarda le arti, ha assunto un ruolo sostitutivo, ovvero ci pensano loro a fare le mostre che il Comune, mancando a un suo dovere, preferisce non fare più. Eppure sempre il Comune bolognese sta agitando la pretesa assurda, attraverso un bando di concorso, di andare a pescare una figura di direttore da mettere tra i piedi dei direttori specifici, come appunto il bravo Medica, magari col compito di lesinare loro i fondi e di dirottarli verso il museo d’arte contemporanea, il MAMbo, concedendo perfino a questa ipotetica figura un diritto di prelazione a favore di questo settore.
Parlando della mostra “Da Cimabue a Morandi”, con cui si è manifestata ufficialmente questa primogenitura assunta dalla Fondazione a scapito di un Comune rinunciatario, ho già osservato come quella rassegna sia da considerarsi “matriciale”, tale cioè da suggerire tante zoomate, tanti approcci più analitici ai vari secoli della Felsina pittrice. Tra questi, spiccherebbe in primo luogo una puntata dedicata al Trecento, e la medesima equipe, Benati- Medica, sarebbe la più adatta a realizzare un capitolo del genere.
Detti però tutti i meriti dell’aver condotto in porto questa mostra, devo subito frenare ogni eventuale entusiasmo, il tardo Trecento e primo Quattrocento in cui Giovanni opera non sono certo tra i migliori secoli dell’arte bolognese, anzi, tra i più oscuri e ingrati, al pari del Duecento e dell’Ottocento, se per quest’ultimo si eccettuano gli inizi e qualche cosa che si muove sul finale, mentre tutti gli altri secoli sono validi, e del resto le Biennali promosse da Cesare Gnudi e continuatori lo hanno dimostrato. Giovanni invece è un tardo seguace del Trecento di Vitale e compagni, caratterizzato come loro da un espressionismo pugnace e aggressivo, che però in lui diviene formula stereotipata. Si veda come profeti e santi agitino le barbe, inanellandole a spire fin troppe simmetriche e taglienti. Siamo insomma di fronte al capitolo di un gotico tardivo, restio peraltro di accendersi delle grazie e dei raffinati linearismi che contraddistinguono il cosiddetto gotico cortese, o internazionale, o flamboyant, qui invece domina un piglio austero, che assume solo qualche grazia nelle Madonne con Bambino, dove lo stesso taglio degli occhi a mandorla, quasi di stampo “cinese” che altrove sa di cipiglio feroce e appuntito, assume un qualche grado di raffinatezza, perfino di dolcezza. Il Rinascimento è lontano, nulla da spartire tra Francesco e il grande rappresentante di questo stil nuovo che giunge a Bologna, cioè Jacopo della Quercia, che invece pur non rinunciando a una supersite gravità ancora trecentesca, la sa sciogliere e distendere in una mirabile espansione di faccette, laddove il suo competitore stringe, aggrotta, affila. Insomma il grande Rinascimento viene dalla Toscana, stenta ad accasarsi in quel di Bologna, ci vorrebbe un’indagine sociologica per dare conto di tanta diversità, tra un versante e l’altro dell’ Appennino. Caso mai, a volerlo scavalcare per condurre qualche confronto, il nostro Giovanni potrebbe essere paragonato a un ritardato e renitente alle mosse rinascimentali, quale anche in terra fiorentina fu Lorenzo Monaco. Oppure sì, anche il Nostro ci si prova, come ha notato lo stesso Roberto Longhi attribuendogli un possibile “Rinascimento umbratile”. Infatti se osserviamo la scena centrale dei Magi, e in particolare, in alto, il Paradiso, c’è una volontà di prospettiva, la corsia centrale e le file degli scranni accennano a una disposizione a piramide prospettica, da anticipare addirittura il Giudizio universale del Beato Angelico, ma qui la piramide non è rigorosa, le linee non si incontrano in un punto di fuga, e soprattutto gli eletti se ne stanno rigidi, impalati, prigionieri entro le loro capsule. Chissà perché, il Rinascimento e le sue innovazioni non visitano il versante di qua dell’Appennino, che deve attender ancora a lungo per partecipare in pieno a quelle regole.
Giovanni da Modena, a cura di Daniele Benati e Massimo Medica, Bologna, Museo medievale, fino al 12 aprile. Cat. Silvana Editoriale-