Devo alla cortesia di Giancarlo Brioschi l’aver ricevuto, su richiesta, il saggio di Paolo Giovannetti “La poesia italiana degli anni Duemila”, non estraneo ai miei interessi letterari che non mancano di lambire il continente della poesia, anche se più di frequente sono dedicati alla narrativa. E’ opera ben informata, colma di dati, e le si deve anche riconoscere un apprezzabile intento equanime, volto cioè a dare il giusto rilievo anche agli autori del versante sperimentale, legato alle varie neo-avanguardie. Però tanta indubbia correttezza è viziata, a mio avviso, da una mancanza di fondo. L’autore ha sfilato via il fondamentale asse della diacronia, della storia. I vari apporti si allineano in modo alquanto inerte, senza un’architettura interna che li animi. Si aggiunga che l’asse della storia si allaccia subito a quella sua principale manifestazione consistente nelle vicende legate alla tecnologia. Non mi stancherò mai di dire che per comprendere tutta l’avventura delle avanguardie vecchie e nuove occorre legarle all’avvento della tecnologia di specie elettromagnetica, o più ancora elettronica, a contrasto con il macchinismo ottocentesco, certo sopravvivente anche nel Novecento, ma avviato a una sconfitta, o almeno a un crescente declino. Mi verrebbe di valermi di una similitudine con l’antro della Sibilla, in cui come è noto nei tempi antichi ci si rivolgeva deponendo davanti alla sua porta i quesiti, e magari avendone le risposte, che però un colpo di vento sconvolgeva, e dunque i richiedenti dovevano fare da sé, ricomporre lo stuolo di dati irrelati. Si vuole qualche riscontro a questa assenza di rilievo plastico, di movimentazione cronologica? Bisogna attendere la pagina 85 per vedere menzionato un evento decisivo quale fu l’introduzione, da parte di Marcel Duchamp. del “ready made”, cioè dell’oggetto banale e qualunque caricato invece di una decisiva responsabilità estetica, anche se ottenuta proprio attraverso una sua negazione, un ricorso a pratiche an-estetiche. Si dirà che quella invenzione era interna alla storia delle arti visive, ma è senza dubbio un merito di Giovannetti indicarne l’equipollenza con le varie poetiche, ben presenti fin dai primi del Novecento, dell’”objet trouvé”, e anche del ricorso al comportamento, all’installazione. Peggio ancora, dopo aver già parlato di Balestrini in pagine precedenti, solo in seguito, a p. 99, compare un riferimento alla sua principale operazione dei primi ’60, il ricorso a un antenato del computer per ottenere un responso poetico del tutto affidato al gioco combinatorio, alla casualità. Si aggiunga subito, a ulteriore dimostrazione della necessità di un percorso storico, che quello altro non era che un ricorso centuplicato a un evento già presente nelle avanguardie storiche, il “cadavre exquis”, ideato da Breton, con l’invito a scrivere una prima frase nascondendola agli occhi di chi veniva dopo, chiamato ad aggiungere una frase nella totale ignoranza di quanto la precedeva. Quello era un ricorso al caso, diciamo così, di specie manuale, rudimentale. Balestrini è stato un perfetto interprete del fenomeno generale, su cui io mi sono permesso di insistere fino alla noia, per cui il secondo Novecento, e le varie neo-avanguardie, nulla inventano di radicalmente nuovo, tranne che di imporre a tutte le pratiche già esistenti un enorme sviluppo quantitativo, con riscontro in ogni altro ambito operativo, il visivo, il sonoro-musicale. La presenza di questo fattore tecnologico vale a mettere fuori gioco le prove dei vari Sereni e Fortini e Pasolini. In fondo, Giovannetti fa bene a dedicare anche a loro un atto di riconoscimento, ma il gioco crudele dell’asse storico-tecnologico li ha condannati, ne ha fatto dei testimoni incerti del loro tempo. Inutile tentare di ricavare un canone della poesia di oggi se non si tengono presenti questi fattori dominanti. E anche certe loro conseguenze, infatti di neo-avanguardie se ne sono succedute tante, e va ancora riconosciuto a Giovannetti di esserne l’accurato catalogatore, ma gli sfugge il nesso, il fattore incalzante della ricerca del nuovo, che pure è requisito primario per chiunque faccia ricerca estetica, in qualsivoglia ambito: bisogna andare oltre il “già fatto”, anche se ad opera di predecessori senza dubbio stimabili, accettabili. Credo che, in ultima istanza, sia questo il motivo per comprendere il fenomeno detto della “prosa in prosa” di Giovenale e compagni, di cui, ancora una volta bisogna riconoserlo, il nostro autore dà ampia e corretta informazione. Ma alla base di tutto ci sta il fatto che lo storico “poemetto in prosa”, addirittura di baudelairiana memoria, col tempo si era logorato, e dunque bisognava ravvivarlo con un guizzo di rinnovata originalità, da qui il raddoppio del ricorso alla “prosa”, come misura apotropaica. O se si vuole, più in generale, il nostro Giovannetti è digiuno di fenomenologia degli stili, ignora fra l’altro il movimento dialettico esistente tra forme chiuse e aperte, con i relativi ricorsi, per cui quando si è esagerato con l’aperto, bisogna chiudere di nuovo, ritornare all’antico, da cui, in arte, è venuta l’esperienza di De Chirico, e di tutti i citazionisti degli anni scorsi, e nella poesia troviamo l’attività di Gabriele Frasca, ancora una volta debitamente menzionato dal Nostro, che addirittura volontariamente indossa il cilicio della storica sestina, o qualcosa di assai simile. Insomma, Giovannetti avrebbe dovuto immergere i suoi fogli sparsi in un vivificante campo elettromagnetico capace di imprimervi linee di forza.
Paolo Giovannetti, La poesia italiana degli anni Duemila, Carocci, pp. 125, euro 13.