Sono un accanito detrattore della figura del “curator”, che pure al giorno d’oggi si è impadronito delle grandi mostre internazionale, spodestandone la mia categoria di appartenenza, dei critici militanti. Tra le varie colpe che imputo a questa categoria c’è quella di “fingere” di avere delle idee generali, ma abbandonandole appena girato l’angolo, per offrici zibaldoni sena ordine, dove le varie presenze sono offerte alla rinfusa. Così è stato nell’edizione della Biennale di Venezia 2011, di Bice Curiger, che esibiva trionfalmente nella prima sala tre dipinti del Tintoretto, di cui però nelle sale successive si perdeva ogni traccia. Peggio ancora nell’edizione 2015 dove Enwezor partiva addirittura da una laboriosa lettura del Capitale di Marx, senza che poi ne riapparisse in seguito qualche traccia. Invece a Massimilano Gioni devo riconoscere, in primo luogo, di essere coerente nello sviluppare le idee-guida enunciate nel titolo. Così è stato alla Biennale da lui curata nel 2013, in cui ha insistito nell’andare alla caccia di collezioni rare, imbastite da soggetti candidi o comunque fuori della mischia. Ho definito quella sua prestazione come una lussuosa mongolfiera, in sé squisita, ma pronta a staccare gli ormeggi dall’attualità, E sono stato critico anche nei confronti della sua successiva “Grande madre”, Milano, Palazzo Reale, 2015, proprio perché mi è sembrato che strada facendo anche lui perdesse il valido spunto di partenza, ma comunque ha cercato di muoversi nel solco del progetto enunciato. Oggi finalmente gli posso dare atto di avere organizzato una mostra del tutto coerente su un grande tema dei nostri giorni, “La terra inquieta”, resa tale dai movimenti di trasmigrazione da un luogo all’altro della carta geografica, ma anche, all’interno, da una condizione sociale all’altra. Enorme, cogente motivo ideologico, cui è possibile collegare strettamente degli equivalenti visivi, come avviene proprio in questa rassegna, Che parte da qualche padre storico, come i situazionisti Pinot Gallizio e Constant, che già alle soglie dei ’60 si facevano carico di come ospitare le tribù nomadi degli zingari. E accanto è giusto collocare altre presenze ormai storiche, Boetti con le sue mappe geopolitiche che si mutano per incanto in brillanti tappeti cromatici. O Mona Hatoum, che traccia su un pavimento con la polvere una carta dei continenti, quasi a indicarne lo stato di precarietà, di confini pronti a cancellarsi, o a non trattenere la transumanza dei popoli. Poi ci sono testimoni più recenti, tra cui un’opera famosa dell’albanese Adrian Paci, consistente in una fila di viaggiatori angosciati arrampicati su una scala in attesa di un aereo della salvezza, che si capisce bene che non verrà mai. Gli fa eco un’opera ugualmente significativa, e giustamente posta nella copertina del catalogo, realizzata dal belga Francis Alys, dove si vede più o meno la medesima schiera di diseredati che si inoltrano in un mare da cui saranno inesorabilmente inghiotti. Continuo passando in esame altre presenze significative, che hanno il merito di mescolare nomi già “arrivati” con altri almeno a me ignoti, abbracciando anche diverse provenienze nazionali, a prova che il tema indagato è davvero trasversale, non ha confini. L’algerino Adel Abdessemed si limita a offrire un cumulo di neri sacchi di immondizia, gonfi delle tante rovine dei nostri giorni. Il polacco Pawel Althamer ci esorta ad affidarci a vecchie pratiche artigianali, per esempio di ciabattino, le uniche che ci possono salvare dagli spettri di un “progresso” minacciosamente incombente. Il francese Kader Attia crea un eloquente “mare morto” con una disseminazione di indumenti abbandonati da povere esistenze finite chissà dove. Brendan Bannon, statunitense, ci mostra una realtà cui ormai dobbiamo assuefarci, uno sterminato campo di rifugiati. Lo svizzero Thomas Hirschorn, svizzero, di cui si ricorda uno straordinario padiglione del suo Paese a una Biennale, è specialista nell’accumulo di rovine e detriti. Ci sono anche artisti in partenza capaci di procedere a operazioni raffinate, come la statunitense Zoe Leonard, che in questo caso accettano di affidarsi alla muta, diretta eloquenza delle cose, impilando una batteria di valige le une sulle altre, simbolo manifesto di un destino mobile avviato verso ignote destinazioni. Questa idea di un mondo messo a soqquadro trova pure una vistosa testimonianza nei lavori di Hassan Sharif, Dubai, intitolato proprio a “Suspended objects”, appesi in verticale in un estremo tentativo di salvezza, e c’è pure un ben noto protagonista come Pascal Marthine Tayou, del Camerun, che addirittura presenta a testa in giù un’intera dimora. Fra tanti artisti che procedono, per il dritto o per il rovescio, a porgerci le loro più o meno ingegnose installazioni, c’è pure qualcuno che non dimentica la vecchia tecnica della pittura, come il cinese Liu Xiao Dong. La si può praticare, ma a patto di ritornare alle sue stesse radici, esercitandola cioè come un naif, come un artista alle sue prime armi, che non ha paura di fornire un ritratto fedele di questa realtà così disordinata e inquietante.
La terra inquieta, a cura di Massimiliano Gioni. Milano, Triennale, fino al 20 settembre, cat. Electa.