Tra gli utili richiami, sotto forma di interviste, che “Artribune” dedica ad artisti affermati c’è stato pure, qualche giorno fa (13 luglio) quello a Gianni Caravaggio, nato nel 1968, ora quindi ultracinquantenne. L’ho seguito con attenzione e consenso fin da quando esponeva alla Kaufmann nella sede molto stretta che questa gallerista di punta aveva a Milano, via dell’Orso, in cui si rischiava di pestare inavvertitamente le minute sculture dell’artista, simili a dei rampicanti, o a delle pietre poste sbadatamente lungo il cammino. Poi la gallerista di punta, in unione con la Repetto, si è trasferita in via di Porta Tenaglia, assegnando un maggior respiro alle opere dell’artista, che comunque vogliono di proposito essere minute, poco invadenti, occupando una natura intermedia, qualche volta solida, da meteorite piovuta dall’alto, o da scavo geologico di massi ibridi, fatti di molti materiali eterogenei ma abilmente portati a una coesistenza reciproca. Altre volte, invece, Caravaggio preferisce affidarsi a materiali leggeri, quasi spumosi o schiumosi, come limature di ferro, o palloncini molto effimeri e provvisori, quasi pronti a scoppiare nell’aria. Insomma, una ingegnosa escursione tra diversi stati della materia, che invitano il visitatore a fare peripli avventurosi attorno a questi corpi variabili, ma sempre stimolanti, sempre dalla natura incerta e cangiante. Un esito plastico, insomma, ben lontano da quello raggiunto da certi suoi colleghi, che insistono su presenze massicce e ingombranti, penso per esempio a Tony Cragg. Caravaggio invece ci invita a ingegnose peregrinazioni attorno ai misteri e agli stati cangianti della materia, riuscendo sempre ad apparire vario, imprevedibile, sorprendente.