Nella mostra a Palazzo Fava, “Bologna dopo Morandi”, tuttora in atto, non ho potuto dedicare molto spazio alla scultura, appena un’opera a testa per i due nostri maggiori rappresentanti in tutta la scorsa metà del secolo, Luciano Minguzzi (1911-2004) e Quinto Ghermandi (1916-1994), in sostanza due vite parallele, ma il primo ebbe il coraggio di lasciare Bologna per trasferirsi a Milano, dove ottenne un largo successo, fino a consentirgli di lasciare alle sue spalle una Fondazione, tuttora esistente in via Palermo. Il secondo, Ghermandi, ha dominato senza dubbio la scena petroniana, dove è stato il principale esecutore di opere monumentali, ma senza saltar fuori dai limiti della provincia. Ora l’Accademia di belle arti, nella sua aula magna, gli dedica una opportuna rassegna incentrata su un florilegio di alcuni capolavori essenziali, accompagnati da un buon apparato didattico, ma mal serviti da un catalogo che punta troppo su immagini dell’artista al lavoro, in fonderia, circondato da amici e maestranze, con immagini non nitide, e senza un accurato regesto. Siccome accanto a lui ci fu una moglie valida pittrice, Romana Spinelli, la brava figlia loro erede ed eccellente grafica, Francesca, potrebbe pensare a istituire una fondazione o associazione a loro nome, Tornando ai due scultori, come già detto, furono vite parallele, al di là della diversa fortuna, prodotta dal coraggio del primo e più anziano di emigrare altrove. Si potrebbe dire che valorizzarono entrambi al massimo le due virtù centrali di ogni impresa plastica, la malleabilità, il concentrare la materia in corpi consistenti, e la duttilità, il diramarne fibre sottili, a invadere lo spazio, ad avvolgerlo in sottili reticoli. Nel caso di Minguzzi la concentrazione materica fu più forte, il che gli consentì di affrontare il tema di figura, offrendola a blocchi, ma come strozzati a fasi alterne, traendo una eredità da un espressionismo anche di matrice naturalista, il che gli permise, ai suoi inizi, di modellare perfino le forti immagini di due partigiani, e poi di valersi di un robusto “schiacciato” adatto per esempio per una delle porte del Duomo di Milano. Origini espressioniste anche per Ghermandi, che per esempio ha composto il corpaccio contratto di un toro per la Galleria omonima della sua città, ma poi in lui ha prevalso la distensione delle masse in lamine sottili, espanse a catturare lo spazio, il che evidentemente non poteva essergli utile per effigiare figure antropomorfe, queste infatti mancano nel suo repertorio. Ma la capacità di distendere la materia in sottili spessori gli ha consentito di entrare in sintonia con l’Informale, nel momento in cui gli artisti di questo stile si ispiravano a motivi biomorfi. Felici sono senza dubbio le espansioni lamellari con cui Ghermandi ha promosso degli enormi bacini del nostro scheletro, estesi anche a simulare efflorescenze di fauna marina. Forse si può accennare perfino a un suo influsso sul collega milanese, quando quest’ultimo è stato chiamato a comporre uno dei suoi più felici monumenti ambrosiani, dedicato al Carabiniere, dove l’”aeroplano”, il tipico copricapo dei militanti in quell’arma, si sviluppa nello spazio in felici avvolgimenti e inanellamenti leggeri e nello stesso tempo tenaci, consistenti. In uno dei suoi capolavori Ghermandi ha diretto quella sua straordinaria capacità di procedere per sottili espansioni realizzando una fontana nello spiazzo antistante l’edificio delle Nuove patologie nel grande insediamento dell’Ospedale S. Orsola. Ma, raggiunto un limite estremo in quelle distensioni di minimo spessore come di ninfee fuse in bonzo, Ghermandi ha sentito in seguito il bisogno di ridurre il tiro, di accartocciare le sue forme troppo estese. Come un organismo vivente che, stuzzicato da un corpo estraneo che si insinua al suo interno, si chiude a riccio, magari per secernere a difesa il condensato prezioso di una perla. In realtà, quel momento di contrazione, che ha fatto seguito a uno di massima dilatazione, è stato anche il superamento di una soglia stilistica. Ghemandi, dopo la metà dei ’60, ha ben capito che l’Informale aveva esaurito la sua stagione, e che da un naturalismo, seppure “ultimo”, come prescriveva Arcangeli, e immerso nei mostri di una zoologia elementare, bisognava riguadagnare territori di artificialità, di industriosità umana, col connesso obbligo di ritrovare anche dei gradi di preziosità ornamentale. E dunque, sui vasti lobi biomorfi si sono iscritti motivi curvilinei, quasi di un ritrovato gusto neobarocco, o forse meglio neoliberty, in una precoce intuizione che stava per arrivare la stagione postmoderna della “citazione”, e dunque gli organismi plastici dovevano acquisire validi caratteri di eleganza, pur sempre nel rispetto di andamenti acuminati, di peduncoli emessi a saggiare lo spazio, e sempre nel rispetto di un ritmo costitutivo fatto di strozzature e rigonfiamenti alterni.
Quinto Ghermandi. “La leggerezza del segno”, in occasione del centenario della nascita. Bologna, Aula magna dell’Accademia di belle arti, fino al 18 novembre.