Il Museo di Capodimonte, a Napoli, dedica un’ampia rassegna a Vincenzo Gemito, “dalla scultura al disegno”, ricca di ben 150 opere, il che obbliga quasi d’ufficio a riaprire un discorso su di lui, Che da parte mia non riesce ad essere molto positivo, nonostante che io non sia più immune da qualche sospetto di umori “rétro”, causati anche dal mio ritorno alla pittura, in forme, diciamolo pure, alquanto vecchiotte. Forse proprio per questo spirito di recupero di talenti non proprio in prima linea già più volte ho detto bene di alcuni coetanei del nostro autore, nati anch’essi nei primi ’50 dell’Ottocento, un momento dopo dell’imperversare dell’ impressionismo, anche di quello di specie nostrana, che io non ho mai negato, ma già provvisti di qualche tratto lanciato a captare situazioni in arrivo. Così per esempio nell’abruzzese Francesco Paolo Michetti, ma di formazione napoletana, come Gemito, ho intravisto qualche traccia non indifferente di schiacciamento della cavità spaziale, il che lo proietta verso soluzioni di specie simbolista. Un altro coetaneo di entrambi, Antonio Mancini, irrobustisce la pasta cromatica quasi con qualche furore espressionista. Ma Gemito è noto prima di tutto come scultore, ed è proprio su questo terreno che non funzionano paragoni con altri suoi colleghi di quel medesimo ambito cronologico, capaci di rasentare situazioni “in avanti”. Lui invece resta lo scugnizzo, il trovatello di scarse risorse che magari si tuffa nelle acque del Golfo e vi scopre qualche modello di statuaria greca, sentendosi tenuto a imitarlo come un tesoro ritrovato, come una via agevole per nobilitare il proprio discorso. Oppure no, è figlio del suo tempo, imbocca un crudo verismo, che però retrocede a una situazione pre-impressionista con un eccesso di attaccamento al vero, come si vede nelle chiome attorte, o nelle barbe gonfie, cespugliose. Nulla a che fare col pollice che ammassa, agglutina, fonde le forme alla maniera di Medardo Rosso, o anche solo col metro davvero simil-impressionista del principe Troubetzkoy. E naturalmente gli sono estranei tutti i possibili fermenti di una situazione simbolista, che invece rendono così suggestive le forme cascanti, attorte, sinuose di Leonardo Bistolfi, lo sfidante del Rosso, anche se purtroppo i Futuristi, con Boccioni alla testa, non lo avevano capito conferendo il primato all’altro. Ma evidentemente si guardavano bene dal prestare attenzione a quel frutto di un passato, abile ma indigeribile, non riportabile in nessun modo a un qualche codice aperto al futuro. Inutile anche guardare all’estero, caso mai si potrebbe fare qualche riferimento al solido mestiere di un Constantin Meunier, ma non certo alla grazia agile ed elegante di un Georges Minne. E dunque, Gemito è da lasciare a un universo di forme legate al passato, senza apprezzabili aperture ai tempi nuovi.
Gemito dalla scultura al disegno, a cura di J.L. Champion, M. Tamajo Contarini, C. Romano. Museo di Capodimonte, fino al 15 novembre.