Se l’amico Giacomelli fosse ancora alla testa di Artribune gli avrei chiesto il permesso di ricordare come si deve Albero Garutti, ma forse meglio che mi astenga, molto più adatta di me a questo ruolo Angela Vettese, che infatti interviene nel numero d’oggi. Ho sempre riconosciuto che Garutti appartiene alla nostra serie d’oro che ci ha dato Piero Manzoni e Maurizio Cattelan, anche lui al seguito dell’aureo precetto enunciato a suo tempo, nel lontano 1750, dal Baumgarten per cui l’arte consiste anche nel produrre “belle pensate”, ovvero raffinati concetti, Ma i due soprannominati pur nelle loro ardite proposte sono sempre stati efficaci ed eloquenti, non c’era bisogno di annettere lunghe riflessioni ai loro gesti, invece Gaurtti è apparso quasi sempre più enigmatico e sfuggente, non per nulla la sua mostra più importante da lui effettuata alla Vitlla Reale di Miano si presentava col titoìo di Didascalie. Era infatti un po’ difficile comprendere per intuito che quella serie di superfici accuratamente ritagliare e accostate le une alle altri corrrispondevano alla misura delle sagome dei suoi mobli di casa, E una srie di lacci multicolori volevano registrare la distanza tra lui e i luoghi di residenza di amici e colleghi. Mi ha colpito favorevolmente una sua operazione condotta quando dimorava a Bologna, docente di accademia, e in una stanza d’albergo aveva posto un sistema di luci al neon capaci di accendersi all’improvviso in qualche momento della notte, non so bene se tra lodi dei dormienti o loro proteste irritate, Era una cerimonia simile a quella inventata da Boetti, della lampada millenaria capace di accendersi chissà quando, ma in quel caso era un puro affidarsi al caso, in Gaurtti invece c’è+ sempre stata la tendenza a pilotare un po’ troppo la liber