Se si vuole indicare un effetto della globalizzazione per quanto riguarda le arti visive, nulla è più efficace di un rimando alla rete di gallerie creata da Larry Gagosian, presente in quasi tutte le capitali del mondo avanzato, con tre sedi a New York, due a Londra, e poi a Parigi, Ginevra, Atene, Hong Kong, e finalmente una anche a Roma, l’unica che mi riesce possibile visitare con una certa frequenza e quindi offrirne dei resoconti. Ma ricevo notizie per email da tutte le altre sedi Gagosian sparse per il mondo, efficace gazzettino della migliore produzione artistica. In Italia non abbiamo nulla di simile, in Europa forse si può contrapporre soltanto una rete accostabile per estensione, stabilita da Emmanuel Perrotin, che però al momento tace nei miei confronti. Qualche giorno fa, a Roma, ho visitato la giusta e opportuna mostra dedicata a Helen Frankenthaler (1928-2011) in cui si può ammirare “Una decina di dipinti, 1974-1983”, su temi marini. Questa pittrice è da riportare al grande capitolo statunitense dell’Espressionismo astratto, in cui ha occupato una posizione intermedia, tra il “tutto pieno” di Pollock, e all’estremo opposto il diradamento, la rarefazione delle distese quasi monocrome di Rothko. Magari, se si vuole, con una maggiore vicinanza a quest’ultimo polo, tanto che si è ritenuto di poterla includere nel gruppo dei “Color field painters”, ma non è corretto, dato che in definitiva la Frankenthaler non rinuncia mai a introdurre episodi di lacerazione, di contaminazione, anche quando, come nella presente mostra, sembra fissarsi sul tema di distese d’acqua. Nel caso suo si potrebbe rilanciare un’etichetta francese che per qualche tempo aveva tentato di contrastare il dominio quasi assoluto, presso di noi, del termine di Informale, ricorrendo al “tachisme”, alla “macchia”, che infatti nei dipinti della Frankenthaler interviene immancabilmente appunto a incrinare, a maculare il “campo cromatico”, a impedirgli di distendersi compatto e assoluto. Qualcosa del genere è presente anche in altri artisti statunitensi, come Sam Francis e Joan Mitchell, tanto da suggerire di proporre per loro una derivazione più appropriata fino a parlare di un “Impressionismo astratto”, con riferimento alle Ninfee di Monet. Ma è un accostamento indebito, le ninfee del pittore francese restano pur sempre un fenomeno di superficie, accarezzato con infinita compiacenza ottica, e dunque legato al naturalismo, al mimetismo della grande tradizione occidentale, che proprio con Monet chiude per sempre i battenti. Inutile, sbagliato volerlo rilanciare a proposito di episodi che si spingono ben oltre. Come succede nelle visioni marine della nostra artista, che affondano sotto la superficie, vanno a scoprire magari depositi di alghe, o tracce di inquinamento, o detriti galleggianti, determinando quindi un sentimento di inquietudine, di minaccia, anche se velata e per così dire assopita. Si esce insomma da un ordine di percezioni a scala normale per entrare in ambiti più sottili e segreti, pronti a invadere anche il continente onirico, a non limitarsi quindi a una semplice visione, ma a farsi “visionari”. Se proprio si volesse nobilitare l’arte della nostra pittrice con paragoni di portata storica, converrebbe vedere in lei l’erede di un connazionale, anche se non proprio fiero della sua condizione di cittadino nordamericano. Mi riferisco a James McNeill Whistler, produttore di visioni azzurrine di distese d’acqua, spesso opalescenti, lattiginose, offerte non ai raggi diurni di una illuminazione solare, ma piuttosto a pallidi riflessi lunari, ricercati sulle rive del Tamigi, o nella Laguna di Venezia, o nel lontano Cile. L’unica differenza è che un’artista dei nostri giorni, come la Frankenthaler, si affranca del tutto dall’obbligo di andare “sul posto”, quelle distese misteriose le scopre al confine tra l’interno e l’esterno.
Helen Frankenthaler, Sea change, a decade of paintings, 1974-1983, Roma, Gagosian, fino al 19 luglio.