Mi guarderei bene dal ricordare in qualche modo il centenario dalla nascita di Giorgio Bassani, se non fosse venuto a irritarmi un trafiletto di Mario Fortunato sull’”Espresso” di questa settimana (n 13, 31 marzo) volto a celebrare le lodi dello scrittore ferrarese, collegandolo pure all’elogio di uno studio monografico dedicatogli a suo tempo da Enzo Siciliano e ora ristampato. Nell’occasione Fortunato denuncia “lo sciocchezzaio neoavanguardistico imperante fra la metà dei Sessanta e tutti i Settanta del secolo scorso”. A questo modo il recensore conferma la strana avversione che quel settimanale ha ostentato verso di noi, a cominciare da un “vetro soffiato” di Eugenio Scalfari che ci condannava, confermando così l’atteggiamento supercilioso che tutto l’italico “establishment” ci ha sempre rivolto. Purtroppo un Eco come sempre volteggiante sul trapezio del consenso non fu pronto a reagire nella sua “Bustina di Minerva”, anzi, disse che in fondo eravamo stati non altro che ragazzotti intenti a fare rumore, così dimenticando l’eccellente guida intellettuale con cui ci aveva sostenuto negli anni buoni, e meritandosi una mia piccata risposta. Per parte mia, sono sempre stato equo verso Fortunato, trattando abbastanza bene i suoi romanzi, e collocandolo nell’ambito di quei “nuovi romanzieri” capeggiati da Pier Vittorio Tondelli che in definitiva hanno aperto agli ottimi esiti dei narratori anni Novanta, ovvero a una terza ondata di neoavanguardismo, piaccia o no a tutti i nostri instancabili detrattori.
Capo d’imputazione, la famigerata frase con cui Sanguineti definiva Bassani e Cassola come “Liale della letteratura italiana”. Devo precisare che io allora, fine anni Cinquanta, come punta d’attacco della nostra denigrazione rivolta a quei due capofila del conservatorismo nostrano, non mi sono mai valso di questa espressione, e non lo ha fatto neppure il mio partner più titolato, Angelo Guglielmi, e dunque si tratta di una formula “scappata” a Sanguineti nel furore della scontro polemico. Ma mi chiedo se addirittura non sia elogiativo usare al loro proposito quel riferimento. La condanna da noi emessa forse era ancora più grave. Se davvero i due avessero colto qualche spunto da una letteratura kitsch e popolare, sarebbero stati quasi in linea con certi sviluppi dei mass media, di cui poi avrebbe fatto tesoro l’astuto Eco quando decise di scendere in pista di persona. Noi dicevamo che i due erano la manifestazione di una Italietta anteguerra, chiusa ai grandi influssi internazionali, intenta a consumare le piccole cronache di un Paese provinciale, ancora arroccato in una cultura contadina. Questo valeva soprattutto nel caso di Cassola, cui magari si poteva riconoscere qualche merito nell’aver tentato, già sul finire degli anni Trenta, di rilanciare il tema del realismo, ma appunto in modi deboli, che poi non avrebbero saputo approfittare delle nuove frontiere e del clima movimentato apertisi col dopoguerra. La sua operazione, insomma, non seppe cogliere il clima vivace apparso per esempio coi Gettoni di Vittorini e Calvino, ponti ad accogliere le prime prove, oltre che di Calvino stesso, di Fenoglio e di Lucentini, davvero degni del neorealismo in presa diretta che stava trionfando nel cinema di Rossellini e della coppia De Sica-Zavattini.
Quanto a Bassani, si potrebbe obiettare che la sua Ferrara era preziosa e aristocratica, ma forse troppo, adagiata in un proustismo fragile, di corto fiato, incapace di affrontare davvero un approfondito passo analitico. Sono andato a rileggermi a questo punto la stroncatura che avevo rivolto al “Giardino dei finzi Contini”, poi raccolta nella “Barriera del naturalismo”, e la ripeterei parola per parola, orgoglioso di averla stesa a tamburo battente. E insisterei anche nella condanna di un colpevole risvolto ideologico contenuto in quel romanzo. Oltre a rimanere fermi a un piccolo mondo antico, i due paladini dei benpensanti di allora tentavano anche di farsi accreditare civettando con l’”impegno”, ma su questo fronte il narcisista Bassani giungeva a un esito disastroso. Infatti, tentando di assorbire qualche sentore di decadentismo “ancien régime”, attribuiva alla comunità ebrea di Ferrara, a cominciare dalla protagonista principale Micol, i segni di una morte spirituale immanente, col che quasi si venivano a giustificare le persecuzioni poi seguite, tanto, quelle creature, a cominciare proprio dalla stessa Micol, ci venivano mostrate come fiori squisiti ma gracili e macilenti, per fortuna che a parlarcene c’era un vispo narratore ben allineato sui temi del giorno.
Alla pochezza dei Bassani e Cassola, in quei miei interventi sfrenati, contrapponevo la prosa certo non gradevole, anzi, pesante, contorta, di Alssandro Bonsanti, ma degna di un proustismo condotto fino in fondo, senza cedere ad attenuazioni civettuole ed estemporanee. I conti tornano, perché poi Bonsanti, posto alla testa del prestigioso Gabinetto Vieusseux di Firenze, non ebbe alcuna remora a invitarmi a parlare di un mio libretto, “Viaggio al termine della parola”, alla cui conferma pensai di invitare il miglior rappresentante della nostra poesia post-futurista, Arrigo Lora Totino, che si presentò in calzamaglia a condurre qualche piacevole performance, con scandalo dei presenti, tranne che del direttore Bonsanti che vi ritrovava tutta l’audacia di cui, da solitario, era stato capace in altre stagioni. Poi, scomparso Bonsanti, a quel posto venne chiamato Siciliano, vendicativo e rancoroso nei miei confronti, tanto da vietarmi il diritto di intervenire di nuovo in quella sede a presentare un mio ennesimo saggio. Ai suoi occhi miopi la mia partecipazione alla neoavanguardia mi squalificava a vita. Ma almeno in Siciliano agivano ancora i residui di vecchi scontri, non capisco perché un rappresentante decoroso dei nostri anni come il Fortunato da cui sono partito voglia continuare in quelle battaglie e condanne.