Reggio Emilia celebra nel modo giusto un suo concittadino, Antonio Fontanesi (1818-1882), che si può considerare il nostro paesaggista principale per quanto riguarda le province transpadane, Piemonte e Lombardia soprattutto, un risultato a cui la città natale, a dire il vero, non poteva contribuire molto. Però, nella sua lunga carriera, ci fu davvero una stagione spesa a casa, lavorando a quello che era detto il Caffè degli Svizzeri, in piazza Duomo, su cui opportunamente, in catalogo, porta l’attenzione Massimo Mussini. Ma era un Fontanesi in curiosa versione “romantica”, alla maniera di Massimo d’Azeglio, che inventava picchi, foreste, cascate d’acqua assolutamente inverosimili se collocate nella placida pianura padana. Gli fu di grande utilità il coraggio che lo indusse ad essere combattente nelle guerre risorgimentali, come del resto allora fecero quasi tutti gli esponenti, al di sopra o al di sotto del Po, delle nuove generazioni, rassomigliando per questo verso a quanto avrebbero poi fatto i nostri più promettenti artisti in occasione della Grande Guerra. Ecco dunque che comincia, da parte di Fontanesi, la frequentazione di Torino, poi un rifugio nella neutrale Ginevra, dove però gli avvenne di completare la propria educazione di paesaggista principe, soprattutto incontrandovi un esponete della Scuola di Barbizon, il Daubigny, da cui anche un passaggio per Parigi e un decisivo contatto con Corot. Però, in proposito bisogna fare attenzione, i Corot furono due, in una prima fase il paesaggista francese era erede della nobile tradizione alla Lorrain del paesaggio classico, rinnovata con le magnifiche visioni laziali, un trionfo di mura rapprese, assolate, pregne di calore, cui poi si allacciarono i Macchiaioli. Ma in seguito, entrato nella squadra dei Barbizonniers, Corot compì una svolta, stimolato anche dal porsi in una precoce gara con la fotografia, e soprattutto con i suoi sali argentati, rabbrividenti, palpitanti. Parte da qui la versione compiuta del paesaggismo di Fontanesi, dove le vedute diventano quasi delle veline sottili, pronte a lacerarsi per lasciare aggallare fronde d’alberi, distese di campi coltivati, animali al pascolo, come batuffoli di cotone, o come covoni rotolanti al suolo, mossi da qualche brezza. E per fortuna quelle pianure piatte, tremolanti, sussultanti, non saranno più sovrastate da vette improbabili, anche se le Alpi ci potevano stare davvero, ma ora l’artista le espunge, considerandole non in linea con la sua nuova visione. Di questo suo saldo raggiungimento c’è una splendida collezione di capolavori, nella mostra reggiana, che si spinge anche a misurare l’eredità del suo concittadino, sempre molto mobile nella sua esistenza privata e professionale, che in definitiva lo porta a privilegiare il Piemonte, ma con incursioni perfino a Firenze, senza però accogliere nulla, neppure da Banti con cui coabitò per qualche tempo. Ma è giusto porlo alla base del Divisionismo del Nord, dal suo inventore, Vittore Grubicy, a colui che ne seppe trarre il miglior insegnamento, Giuseppe Pellizza, e gustee anche le puntate verso Avondo e Reycend. Quanto a poter varcare legittimamente il capo del Novecento, certamente è appropriato schierare i dipinti “ebbri” di Tosi, o i Carrà tardivi dopo il 1930, e forse, al seguito di Francesco Arcangeli, ci possono stare anche i suoi “Ultimi naturalisti”, il trio Mandelli-Moreni-Morlotti. Ma francamente non si capiscono le citazioni di Burri, le cui lacerazioni fin troppo materiali non hanno nulla a che fare coi lievi palpiti atmosferici nutriti da Fontanesi, e non ci stanno neppure le misure angolari, da geometra implacabile dello spazio, tipiche di Sergio Romiti. Antonio Fontanesi e la sua eredità. Acura di V, Bertone, E. Farioli, C. Spadoni. Reggio Emilia, Palazzo dei Musei, fino al 14 luglio. Cat. Silvana editoriale.