Progetto molto saggio, quello di Genus Bononiae, di fornire nella sede prestigiosa di Palazzo Fava una buona sintesi dei tre celebri muralisti messicani, Rivera, Orozco e Siqueiros. Per un verso, si tratta di una mostra tra le più significative, delle molte che sul filo dei decenni sono state dedicate in tutte le parti del mondo a questo famoso trio. Infatti non per nulla essa è detta “sospesa”, in quanto venne interrotta, nel 1973, al momento di essere inaugurata a Santiago del Cile, appena un giorno prima del colpo di stato di Pinochet. Le opere vennero imbarcate in tutta fretta e restituite alla loro patria. Ma nello stesso tempo, accogliendo questa mostra, la Fondazione bolognese, risale ai padri protettori dell’operazione che ha condotto l’anno scorso, riallacciandosi ai nipotini di un simile massiccio intervento di arte urbana, ai graffitisti dei nostri giorni, recuperati in alcune loro prestazioni sui muri bolognesi.
Volendo parlare dei tre sommi protagonisti di quell’episodio, pieno di risonanze e imitazioni in tante altre parti del mondo, conviene forse seguire l’ordine nelle nascite, e dunque partire dal più anziano, Diego Rivera (1886-1957), il che lo indusse ad abbeverarsi alle fonti della sapienza europea. Visse a lungo a Parigi, frequentando il Cubismo, acchiappato nella fase tarda detta “sintetica”, che si colorava pure di risonanze decorative, alla maniera di un nostro grande protagonista di quella stagione, Gino Severini, e dello stesso Picasso, che ora trionfa nella mostra alle romane Scuderie del Quirinale, colto nel momento in cui si diede a un “richiamo all’ordine”. Non fu quello il caso di Rivera, che rientrato nel suo Paese, più che il richiamo a un classicismo europeo, sentì il bisogno di collegarsi ai miti della sua terra, ma trattandoli con uno stile calmo, quasi ieratico, con volti pieni, allineati con cura come in pazienti pallottolieri. Anche se viceversa gli fu al fianco una artista straordinaria, per inquietudine, per un procedere che si potrebbe dire anoressico, di figure magre, nevrotiche. Fu il caso di Frida Kahlo.con cui il più anziano Rivera ebbe la ben nota relazione, travagliata e colpevole.
Le date di nascita hanno il loro fato, quasi come i libelli del noto proverbio, e dunque i circa dieci anni con cui Orozco e Siqueiros fecero seguito al capofila impedirono loro di abbeverarsi alle fonti europee, essi cavalcarono direttamente e con furia selvaggia i miti insurrezionali della loro terra, abbracciarono la causa dei “campesinos”, in eterna rivolta contro un potere centrale che invariabilmente, dopo false partenze nel segno della democrazia, andava a schiacciarli. Tutto ciò esigeva il ricorso a uno stile tipicamente espressionista, quale del resto seguivano in Europa i loro equivalenti soprattutto nell’ambito tedesco, i Dix, i Grosz, che però non seppero raggiungere la dimensione epica e corale che i due messicani affidavano ai loro murali. O anche a dipinti da cavalletto, come sono quelli presenti in mostra, di José Clemente Orozco (1893-1949), dominati dal motivo folclorico dei sombreros, come pesanti coperchi che gettano nell’ombra quanto avviene sotto di essi. Si intravedono corpi tumefatti, forse sottoposti a tortura e ora offerti a tardi riti funebri. In alternativa ai sombreros che schiacciano e appianano, talvolta si levano invece lame taglienti, che sono di dirupi andini, ma anche di coltelli branditi per squarciare sia i corpi, sia paesaggi che pretendano di essere troppo pigri e statici. Un tema intermedio potrebbe essere quello dei cavalli, che avanzano con impeto esuberante, resi magri, solo pelle e ossa, lanciati alla riscossa da armate sotto la guida del leggendario Zapata. Il tutto potrebbe essere riassunto col binomio rumore e furia, “sound and fury”, che il loro quasi collega con la penna, Falukner, e dal non lontano territorio statunitense, riprendeva da Skaspeare facendone le parole-guida del suo universo ugualmente tragico.
Non è facile distinguere da quello di Orozco il linguaggio del tutto paritetico di David Alfard Siqueiros (1896-1974). Forse a caratterizzare quest’ultimo c’è un fare rotondeggiante, bombato, che viene anche in questo caso da un motivo terragno, di zucche gonfie, attorte, sinuose, pressoché equivalenti alle presenze umane, a nudi di donna, coi glutei protesi, i seni gonfi, o scarni per denutrizione. E anche Siqueiros ama l’immagine di un cavallo balzante in scena a riempirla, trascinandosi dietro un cavaliere i cui lineamenti si fanno indistinti per la spinta dinamica che lo muove. Siqueiros è anche quello che cura di più l’aspetto tecnico adottando un colore, la proxilina, che può essere visto come un anticipo dei nostri acrilici, o come una sostanza plastica, capace di rendere voluminose le figure, fino a farle balzare fuori dalla superficie. E’ notorio che questa loro aggressività, tematica e tecnica, non rimase confinata nel solo Messico ma invase largamente i vicini USA, dove li attendeva un Pollock desideroso anche lui di dare sfogo a energie incomprimibili. Del resto il valido uomo politico che di là dal confine si faceva davvero carico delle esigenze del popolo, il presidente Roosvelt, non esitò a concepire la Works Progress Administration, un intervento in aiuto degli artisti disoccupati, vittime della grande depressione del ’29. In definitiva, le proposte di arte pubblica provenienti dai Messicani erano quanto rispondeva di più a quell’ardito progetto. Forse anche oggi ci vorrebbe qualcosa di simile in appoggio ai vari tentativi di graffitismo e street art.
Orozco Rivera Siqueiros. La mostra sospesa. Bologna, Palazzo Fava, fino al 18 febbraio. Cat. Silvana.