L’avvenimento del giorno è dato senza dubbio dai due referendum regionali, nel Veneto e in Lombardia, a proposito dei quali si devono pronunciare due sentenze opposte. O sono inutili, o dannosi. Inutili: è chiaro che, se servono solo per ottenere di pagare meno tasse allo stato centrale, anche gli abitanti delle altre regioni sarebbero d’accordo e chiederebbero di procedere a un analogo referendum. La stessa cosa vale se in particolare il fine viene detto consistere nella pretesa, del Veneto, di ottenere uno statuto speciale, come le vicine Bolzano e Trento. Se tutte le nostre regioni chiedessero di ottenere quel medesimo regime d’eccezione, nessuna lo sarebbe veramente. E non si considerano le ovvie ragioni che ci hanno indotto a fare quella concessione a Bolzano, per mantenere la pace con la comunità di lingua tedesca e alla Valle d’Aosta, in prevalenza francofona. Resta da chiedersi se motivi ugualmente cogenti siano esistiti anche nel caso della Sicilia. Mi meraviglio che, in tema di questa pretesa di versare meno imposte a Roma ladrona, nessuno abbia ricordato l’apologo di Menenio Agrippa. Queste regioni che pretendono di tenersi la maggior parte delle imposte ricordano proprio la rivolta delle membra contro lo stomaco che richiama tutto a sé, ma si deve pur riconoscere che poi esso redistribuisce le necessarie sostanze nutrienti. Forse, a correzione dell’apologo, si può obiettare che da noi il potere centrale si prende troppo e restituisce poco o malamente, d’altra parte non pare proprio che le amministrazioni regionali siano un modello di perfetta efficienza e si dimostrino capaci di evitare gli sprechi, la mala dissipazione di risorse.
Questo l’aspetto di inutilità dei referendum, ma quello del Veneto puntava più in alto, abbozzava un motivo di secessione. Dio non voglia che in altra occasione i Veneti chiedano di pronunciarsi sul rimanere o no nell’Unione Europea. Ritroviamo in merito per intero la diarchia tra Londra e il resto dell’Inghilterra. Milano in sostanza si è comportata come la capitale britannica, con bassa frequenza al voto (lasciamo perdere il flop del ricorso a un sistema elettronico, prima o poi ci si arriverà di regola). Solo le province lombarde, arretrate e bigotte, hanno tenuto alto il coefficiente di quella regione. Se invece il fatale quesito si ponesse ai vicini veneti, ne verrebbe di sicuro un Venexit, quindi, per carità, non aprite quella porta. Avventure quasi comiche di indipendentismo veneto sono già avvenute nel passato, e Zaia si vede abbastanza bene nei panni di un presidente della Generalitad catalana, forse per questa ragione non vuole distaccarsi dalla sua regione, sogna di portarla all’indipendenza. Ma il dialetto veneto non è una lingua, e la storia non concede al Veneto ragioni particolari per manovre separatiste, i fasti della Serenissima si sono estinti da tempo. Resta, al di sopra di tutto, la paziente opera di Gentiloni, che fa da spugna, non dà torto a nessuno, ma sa bene che non può concedere molto alle parti. Ci vorrebbe uno come lui a moderare lo scontro tra il governo spagnolo e Barcellona. Il pessimo Rajoy rischia di far precipitare la situazione e di apportare alla stessa causa unitaria della hispanidad un danno irrimediabile.