Sulla incredibile e impensata vittoria di Trump alle elezioni statunitensi si sono scritte cose certamente sensate e condivisibili, trovo però una carenza di dati oggettivi. L’unico a risultare è che nel voto popolare la Clinton ha superato l’avversario di un milione di suffragi, questo suona a perentoria confutazione degli azzeccagarbugli nostrani che si sgolano, contro le riforme prospettate da Renzi, a invocare la sacrosanta purezza del criterio proporzionale nelle elezioni. Risulta invece che le due maggiori democrazie del mondo occidentale, Gran Bretagna e USA, se ne infischiano, di tale criterio. Anche Cameron a suo tempo, al voto popolare, aveva avuto meno suffragi rispetto ai Laburisti. Ma il dato mancante, o quanto meno sfuggito a un osservatore del resto non professionale come lo scrivente, è la percentuale dei votanti. Prendendo come campione le votazioni che quattro anni fa hanno consentito a Obama di duplicare il suo mandato, e che se ripetute con qualche fedeltà numerica avrebbero dovuto consentire il successo della erede designata a piene lettere, Hillary, che cosa è cambiato? Percentuale più bassa, di cittadini smarriti e incerti? E c’è stata una astensione del voto nero, sfiduciato dalla politica di Obama che non ha impedito le ripetute esecuzioni da parte della polizia di poveri neri innocenti? Quel tragico ritmo mi ha fatto pensare agli ultimi giorni prima che l’Algeria ottenesse l’indipendenza, quando i “pieds noirs” massacravano ogni giorno qualche decina di nativi. E i giovani come si sono comportati? E le donne? Hanno rispettato un vincolo di solidarietà di genere, o vi si sono opposte, non gradendo l’immagine di Hillary? E se invece si dovesse parlare di una ineluttabilità quasi di sapore fisiologico? Si dovrebbero andare a controllare gli annali delle elezioni statunitensi, forse non è mai avvenuto che dopo che un partito ha mandato alla Casa Bianca per due volte consecutive un proprio esponente, ci fosse la possibilità di un’ulteriore vittoria di un suo erede virtuale. Forse quel ricambio è stato il frutto di una segreta regola fisiologica che bisogna accettare, piaccia o no. Questo turn over, con dolorosa sconfitta di quanti hanno il cuore a sinistra, ci ricorda un evento analogo incarnato da Reagan. Un fine politologo come Panebianco si è affrettato a dirci, sul “Corriere”, che non si può paragonare l’ex-attore al trionfatore attuale, ma temo che nel giudizio l’articolista faccia entrare il senno del poi, traendo spunto dal sapere come “poi” Reagan si è davvero comportato. Se invece andiamo a leggere le reazioni della nostra parte di sinistra al consumarsi di quel cambio della guardia, temo che le troveremmo simili alle reazioni di questi giorni. E in definitiva, anche ora ci resta solo da sperare in un ammorbidimento del vincitore, che non dia seguito a quanto annunciato nel programma elettorale.
Se poi, come pare necessario, andiamo a misurare l’esito delle elezioni statunitensi a quanto ci aspetta il 4 dicembre prossimo, sarò un illuso, ma credo che ci possano essere aspetti positivi per il fronte del sì. In un momento di totale incertezza, di salto nel buio provocato dall’avvento di Trump, la nostra maggioranza silenziosa giocherebbe al massacro anche qui in Italia, se abbandonasse il miraggio di un approdo sicuro a favore di un pelago insidioso e incognito. E poi, se i sondaggi sbagliano, smentendo le nostre speranze di una vittoria del Brexin e di Hillary, perché una volta tanto non dovrebbero sbagliare anche quando profilano l’infausto primato del no? E poi, se di questi tempi va di moda pronunciarsi contro gli establishment, ebbene, nessuno può sostenere che l’era Renzi abbia già fatto a tempo a istituzionalizzarsi, anzi, è ancora in uno stato di sospensione, bisognosa di una spinta nella direzione giusta.