Nell’aprile scorso, da lunedì 16 a venerdì 20, 2018, ho tenuto un ciclo di lezioni alla Faculté des lettres et des sciences humaines dell’Università di Sfax, seconda città della Tunisia per importanza economica, su invito di un caro amico, Souflane Chaari, ottimo conoscitore della lingua e letteratura italiana per lunghi soggiorni nel nostro Paese. Confesso di aver commesso un errore di presunzione, da vecchio quale sono, abituato, fin dai tempi ormai lontani dei miei studi universitari, a praticare una sola lingua straniera, il francese, masticando invece con difficoltà l’inglese, esperanto dei nostri giorni. In un precedente invito, sempre da parte di Chaari, ma quella volta in altra località tunisina, Hammamet, avevo potuto constatare che la Tunisia aveva mantenuto proprio il francese come lingua ufficiale, e dunque non mi pareva vero di poter andare a manifestare la mia padronanza di quella lingua nel seminario previsto. Anche il programma, per la parte relativa a uno dei miei interessi, la narrativa, si ispirava all’esame di grandi romanzieri europei, tra Sette e Ottocento, escludendo stupidamente i nostri autori. Avevo invece trascurato il fatto che, proprio sotto la guida illuminata dell’amico Chaari e dei suoi bravi collaboratori, mi sarei rivolto a studenti di letteratura italiana, passabilmente capaci di intendere la nostra lingua, in cui infatti sono stato invitato a esprimermi, cosa senza dubbio più facile, ma anche punitiva delle mie ambizioni, e del resto i pochi docenti di quell’ Università che hanno avuto il coraggio di mettere il naso alle mie lezioni, credo che siano stati scoraggiati proprio dall’uso di una lingua per loro poco familiare.
Ma non è di questo che qui intendo parlare, intendo svolgere piuttosto qualche riflessione generale, pur sempre suscitata da una simile occasione. La generosità di Chaari prevedeva che venisse all’aeroporto di Tunisi per caricarmi sulla sua auto e affrontare i 300 km circa di autostrada per arrivare nella sua città di residenza. Lasciata Tripoli e dintorni, con la vista di qualche montagna, il paesaggio si è appiattito, scorrendo in mezzo a un’infinita distesa di ulivi, sorgenti da un terriccio ocraceo. A una mia domanda se alla scarsa ombra di quelle piante ci fosse qualche coltura, la risposta è stata negativa, la scarsità di acqua obbliga a concentrarla tutta per far crescere gli ulivi, e dunque siamo a una rigida monocultura, interrotta solo da greggi, e dalla vista di villaggi biancheggianti in lontananza. Confesso che tanta monotonia mi ha indotto a celebrare dentro di me i vantaggi della nostra Italia, posta all’insegna del “piccolo è bello” e di una estrema varietà di assetti geologici e di panorami. Ma di recente ho fatto un viaggio in treno lungo la Puglia, ebbene, da dopo Foggia fino a Lecce il paesaggio è uguale identico a quello tunisino, anche là domina l’ulivo quasi in misura esclusiva. Quanto poi alle varie località, forse anche qui ci sono delle affinità. In Tunisia si hanno macchie enormi di costruzioni basse, tutte in bianco, cinte da muri che non permettono allo sguardo di entrare. La monotonia delle cinture, o di quanto si innalza sopra di esse, è rotta da tocchi squisiti, finestrelle, motivi decorativi in cui si esprime l’eleganza di una cultura che ha rifiutato l’iconismo e che si esprime mediante ciò che si usa definire “arabesco” per antonomasia. Altro tratto costante: tante costruzioni sono rimaste bloccate, con pareti grezze, pronte per essere allungate, innalzate, estese a futura memoria. E’ l’effetto di un abusivismo che viene bloccato da qualche intervento di legge, o una prudente e saggia misura, quasi di architettura organica alla maniera di Lloyd Wrght, di flessibilità, tanto da permettere alle famiglie di allargarsi via via che i figli crescono e mettono su famiglia a loro volta? Naturalmente l’amico Chaari, alla domenica del mio arrivo, mi ha invitato a casa sua, che avrei faticato a trovare, in un reticolo infinito di strade tutte uguali, se non fosse stato lui stesso a portarmi, e beninteso anche la sua dimora si trova in quello stato di sospensione e di attesa di possibili estensioni future. Una situazione del genere, se non in Puglia, si trova sicuramente in Sicilia, come mi è capitato di constatare nell’agrigentino, quando vi andavo per incontri pirandelliani, ma là è il frutto di abusivismo, di edificazioni fatte con la mano sinistra, sfidando appunto i regolamenti civici.
Deludente è dunque aggirarsi in un infinito labirinto di stradine tutte uguali che vanno a perdersi nei campi, con lo sguardo sbarrato da arcigni muretti protettivi. Però a questa piattezza c’è un antidoto, se ci si reca nel centro città. Dove ovviamente esiste un’area di modernità, al passo coi tempi, ma è soprattutto spettacolare la Medina, la zona vecchia e tradizionale, che è un’area di mercati, negozi di cibi e di ogni altro tipo di merci, che si estendono a labirinto, roba da perdersi dentro, da smarrire l’orientamento, con montagne di ortaggi, tagli di carni, pesci di tutti i generi e formati. Non ricordo di aver visto nulla di simile, per estensione e abbondanza di offerta, in qualsivoglia mercato da me visitato nel nostro Paese. Notevole anche il rito di certi ristoranti dove ti mostrano in un piatto le diverse combinazioni di pesce da cuocere su tua ordinazione, in base a quanto vuoi spendere. Nell’attesa che il cibo sia pronto, ti arrivano antipasti con salse piccanti che è assai pericoloso assaggiare.
Ma veniamo al motivo fondamentale della mia presenza, alle lezioni che ho impartito. Già ho detto dell’errore di aver sottovalutato l’interesse del mio pubblico per la letteratura italiana. Però sono molto orgoglioso del messaggio generale che ho portato, e che sarei ben lieto di andare a ripetere in ogni altro luogo del mondo. Il fatto è che oggi per la prima volta da secoli o da millenni l’jntero pianeta si trova a valersi di una tecnologia unificata. E naturalmente è stato il mio solito McLuhan a fornire le coordinate di questo comune destino, a predicare l’avvento del “villaggio globale”, del “tutti in rete”, tutti chini sul cellulare come fonte infinita di notizie, di servizi utili, al seguito del dato dominante dell’immensa velocità del segnale elettronico, e della capacità di accumularlo in quantità enormi in una piastrella di silicio.
E’ stato, questo mio messaggio, questa “buona novella” che sono venuto a portare, qualcosa di inadeguato, rispetto al livello dei miei ascoltatori, e ascoltatrici? Si potrebbe obiettare che molte tra loro portano il chador, ma con eleganza e leggerezza, e non è più un obbligo, tante altre ne fanno a meno senza subire alcun interdetto. Ma tutte, comunque siano vestite, sono pronte a chinarsi sui cellulari, il dato che oggi unifica davvero tutti gli abitanti della Terra, e ne traggono alimento, di sicuro con più abilità di me. Infatti l’accedervi non si differenzia più per aree geografiche e culturali, ma piuttosto per fasce d’età, per generazioni. Da loro mi sono sentito muovere l’obiezione che però il Paese in cui vivono è ai margini del mondo, in un’area periferica, lontana dai centri avanzati di elaborazione tecnologica. Ma gli esiti che ne escono arrivano dappertutto, come sta proprio a dimostrare lo sfruttamenti dei cellulari da parte di quelle ragazzine che pure portano il chador. Del resto, chi può dire, magari qualche innovazione viene introdotta dovunque, in fondo uno dei dogmi della nuova età ci dice che il centro è dappertutto.