Più di dieci anni fa avevo recensito un romanzo di Cesare De Seta, “Quattro elementi”, con qualche titubanza, perché temevo di occuparmi di un tipico “violon d’Ingres”, cioè di una prova laterale, da dilettante, di un autore ben noto per solidi titoli di docente universitario in storia dell’arte e dell’architettura, ma già allora avevo dovuto ammettere che quella storia “teneva”, anzi, sapeva creare una forte tensione, con punte quasi di sadismo, tanto che mi ero permesso di fare un rinvio a un nostro novelliere principe quale Matteo Bandello, con sorpresa dello stesso De Seta. Ora, di fronte a questa “L’isola e la Senna”, non ci sono più dubbi, Cesare fa sul serio, gettandosi con coraggio nella mischia, anzi, in una specie di “main stream”, di corrente maggioritaria in cui nuotano tanti odierni narratori nostrani, più titolati di lui, se non altro per essere dediti a quell’esercizio in esclusiva. Siamo di fronte ai casi di una famiglia tipicamente “aperta”, con drammi di coppia, tra fedeltà e tradimenti, con i problemi dati dai figli, alcuni dei quali crescono bene, altri tralignano. E poi ci sono le malattie incombenti, da cui, anche quando riesce a risolvere i problemi economici, è però afflitta la nostra società, fino a dover accompagnare padri e nonni fino al passo fatale. Tutto insomma scontato, prevedibile, e d’altra parte a generare sospetti c’è perfino un sottotitolo in copertina, quasi diminutivo a bella posta, “carte postale”, come di un narratore che si limita a fornirci scene di genere e di colore locale, con una deambulazione incessante dei protagonisti tra la Senna che compare nel titolo, e invece località avite del nostro ambito regionale. Ma De Seta si riscatta da quello che potrebbe apparire come un andamento abbastanza scontato impostando invece una coraggiosa inversione dei tempi. E così il protagonista, Pierre, un intellettuale, cui l’autore stesso potrebbe avere ceduto qualche sua caratteristica personale, se ne va subito in apertura, con una morte che ci viene offerta quasi in diretta, con lo stupore, la sorpresa, lo sconcerto della stessa vittima. Ma in realtà Pierre non abdica da un suo protagonismo, che gli viene restituito attraverso un’abile citazione letteraria, rubata all’Eliot della “Waste Land”, dove si parla, in francese, di Fleba il Fenicio, che sarebbe un “dritto”, un abile mercante, ma costretto da un naufragio ad affondare in mare, e mentre affonda, si vede costretto a rivivere le tappe della sua esistenza. Se vogliamo, il nostro Pierre non è così dappoco, nulla in lui risponde a un carattere banale, di affarista spudorato, ma gli viene inferta la stessa pena, o lo stesso riscatto, la possibilità di rivivere i vari momenti della sua esistenza, felici o meno che siano stati, e così anche noi lettori partecipiamo a questa ricostruzione “á rebours”, con i suoi vari eventi, i difficili rapporti con la moglie Lidia, che ha tutto il diritto di “vivre sa vie”, tanto più che rimane vedova nel fiore degli anni, del resto anche nei tempi in cui viveva ancora col marito non mancava di concedersi qualche giro di walzer. Ma soprattutto ci sono i rapporti coi figli, grazie anche a un accorgimento utile per arricchire la casistica, di darli alla coppia in un numero consistente, di ben quattro. Ci sono due maschi che si allontanano, presi da egoismo, da resistenza ai rapporti familiari, da progressivo distacco reciproco. Ma l’affetto dei genitori, e soprattutto della moglie-madre più a lungo esistente, vanno agli estremi della catena, all’unica figlia, Carole, che spicca per doti di intelligenza e sa catturare le simpatie di tutti, però viene minacciata da una malattia che fa trepidare i parenti. E poi c’è il caso più delicato di Duccio, che è la pecora nera di quel nucleo familiare, incerto sul suo avvenire, irresoluto, dedito al vagabondaggio, con attrazione verso l’India, ma per condurvi un’esistenza sregolata, anarchica, dedita all’uso della droga, con tendenze eterodosse perfino in campo sessuale. E’ insomma una spina nel fianco di quella comunità, ma proprio per tanta sua debolezza e fragilità risulta essere anche il più amato dalla madre, costretta a fare tristi incursioni nel tugurio in cui quel giovane vive malamente, quasi da reietto, e con un compagno occasionale. Presagiamo che la corda è troppo tesa e non potrà che spezzarsi, attraverso un tipico gesto di suicidio, che viene a chiudere la vicenda nel segno di un algore invernale, di un freddo gelido e scostante. L’ultima “carte postale” che ci raggiunge è listata a lutto, a chiusura di una serie che però ne ha messe in campo tante altre piacevolmente varie e colorite.
Cesare de Seta, L’isola e la Senna. Carte postale. Jaca Book, pp. 141, euro 15.