Letteratura

De Roberto alle soglie del comico pirandelliano

Ho ricevuto qualche giorno fa “La paura e altri racconti di guerra” del nostro grande De Roberto, terzo e più giovane della gloriosa pattuglia dei veristi siciliani, accanto a Verga e Capuana, volume a cura di Gabriele Pedullà, con sua ampia prefazione, ma confesso di averlo accantonato, dando per scontato che fosse una nuova eccellente prestazione di questo critico dominatore tra le nuove generazioni, di cui avevo già lodato, si vada a scorrere all’indietro questo blog, la curatela definitiva del capolavoro di Beppe Fenoglio, “Il partigiano Johnny”, per non parlare di altre sue operazioni ugualmente magistrali, come l’edizione critica del “Principe” di Machiavelli, eccetera, e senza dimenticare che è anche in proprio autore di validi racconti, e mio costante socio negli incontri di RicercaBO. Temevo di trovarmi di fronte a un prodotto prevedibile. Un verista di provata probità e attaccamento al vero, soprattutto quando questo si presenta farcito di privazioni, torti inflitti agli umili, soperchieria della classe dominante, ovviamente non poteva non aver trovato un fertile terreno su cui misurarsi anche di fronte ai guai del primo conflitto mondiale, anche se, data l’età inoltrata, non aveva potuto parteciparvi. Ma una sbirciatina a quelle pagine, per trarne una rapida conferma, l’ho pur data, ricavandone invece un responso ben diverso, caro del resto a uno dei capisaldi della mia metodologia critica, al fatto che le date di nascita in genere non smentiscono e reggono le sorti degli operatori, quale che sia il terreno in cui conducono le loro imprese. De Roberto era nato nel 1861, e dunque una generazione dopo i classici e tipici veristi quali appunto Verga e Capuana, venendo invece a trovarsi a un passo da Cechov, Svevo, e perfino dal conterraneo Pirandello (1868). Possibile che in lui non ci fosse traccia di questi nuovi umori annuncianti problematiche ben diverse? In assenza delle quali, il giudizio su questi racconti tardivi avrebbe dovuto calare irrimediabilmente di valore. Ma invece ecco la sorpresa, che mi ha portato a scoprire in lui, soprattutto in questi racconti dell’ultima ora, un praticante dell’”avvertimento del contrario”, cioè del comico da cui anche Pirandello aveva preso le mosse, e lascio all’acume di Pedullà di andare a verificare se si possa cogliere un influsso del più giovane sul più anziano, come tante volte succede.
Del resto, nella sua lunga e sapiente introduzione lo stesso curatore ci mette sulla strada giusta, quando a pagine 27, in un testo utilmente articolato in capitoletti, ne intitola uno al “primato dell’intreccio”, il che certo, di nuovo, non si potrebbe applicare al verismo nei suoi svolgimenti canonici, dove conta l’indagine di costume, prevalentemente statica e ripetitiva, piuttosto che lo scoccare di eventi insolti. Ma si vada a leggere questi racconti. Già il primo, intitolato alla “Cocotte”, è sorprendente per il colpo di scena, che non esita a rasentare l’inverosimile, mentre si sa bene che la scuola verista si faceva un punto d’onore nel rispettare andamenti prevedibili, quasi in termini statistici. Leggevo con un senso di noia la vicenda di un bravo capitano al fronte che sarebbe col cuore vicino alla moglie in attesa delle sue licenze, ma viene traviato dai colleghi che lo spingono ad accettare un amore venale, capitolo ben noto, illustrato in seguito anche da Hemingway, degli ufficiali che si recano nelle case di tolleranza, anche se qui il pudico De Roberto assume una foglia di fico, si tratterebbe solo di una cocotte, chissà se disposta anche a concedersi fino in fondo. Del resto questa ha facile vittoria sul nostro virtuoso ufficiale, sedotto dal fatto che in lei ritrova, ma involgariti, sepolti sotto uno strato pesante di belletto, i tratti della adorata moglie lontana. Il lettore, se ha fiuto, capisce subito dove si vuole arrivare, la cocotte sguaiata e la moglie timorata sono una persona sola, la seconda, impedita di accedere alla prima linea, si è valsa di questo accorgimento, dato che per il sollievo dei poveri fanti alle prostitute non veniva negato quell’accesso che invece risultava proibito alle mogli legittime. Non siamo forse già qui alle soglie di una dialettica tra la maschera e il volto, sulla scia di un pur cauto pirandellismo? Si venga a una novella successiva, “All’ora della mensa”, dove un ufficialetto, inviso a tutti per una sua condotta solitaria, viene scoperto da un inferiore di grado mentre all’ora dei pasti si chiude a chiave nella stanza dove si tengono i segreti della compagnia. Siamo in presenza di una spia? Questo il cauto allarme lanciato dal soldato che fa breccia nel comandante, il quale forza l’ingresso, ma per fare una scoperta di schietta comicità: il povero ufficialetto sta mangiando un cibo povero, tenuto nascosto in un cassetto, dato che per lui partecipare alla mensa comune è troppo costoso, così risparmia la retta (curiosa circostanza, che i graduati allora dovessero pagarsi i pasti) e la può mandare alla numerosa famiglia che attende quella risorsa, come i rondinini nel nido. Un altro racconto di schietta comicità è “La retata”, dove con grande sorpresa e divertimento di tutti un soldato semplice racconta com’è riuscito a indurre ben una quarantina di austriaci ad arrendersi e a seguirlo docili nelle nostre trincee. Fatto prigioniero, ha scoperto che quei combattenti erano affamati, in possesso di un misero cibo, e allora si è messo a magnificare il rancio che veniva impartito alla nostra truppa, esibendosi in una sfilata di piatti legati alle migliori tradizioni culinarie delle nostre regioni, da chef consumato e brillante. A quel richiamo i poveri nemici non avevano resistito e si erano arresi in massa,
Ma accanto agli esiti comici ci sono anche quelli tragici, vedi il caso del “Rifugio”, anche qui si parte dall’ovvio e scontato, come la vicenda del soldato vile, renitente al proprio dovere, tanto da dover subire la fucilazione. Anche a questo proposito, quanti decorsi similari ci ha offerto la letteratura di guerra, ancora una volta si pensi allo Hemingway di “Addio alle armi” dove si trova una livida e spietata testimonianza di queste punizioni di cui stava per essere vittima il suo protagonista. Fin qui, appunto, tutto normale, ma poi l’esito stravolto e di grande efficacia, succede che il solito ufficiale narrante passa una notte ospitato in un casolare di brava gente del luogo che gli dicono delle loro ansie per il figliolo al fronte, da cui sono pervenute regolarmente le lettere, contenenti una collana di resoconti su brillanti azioni militari da lui compiute, degne di ricevere attestati e medaglie. Con orrore il nostro protagonista scopre che di altri non si tratta se non proprio del misero disertore fucilato, capace di ordire per i familiari una esaltante trama di menzogne, anche qui con sdoppiamento di personalità. Infine certamente tragica è anche “La paura”, in cui però, esprimendo un unico minimo dissenso rispetto alle valutazioni di Pedullà, non vedrei il clou della raccolta, ma ancora una volta l’esito stravolto e inaspettato di una situazione peraltro al solito ben nota e attestata da tanti altri testimoni. Viene l’ordine inflessibile di occupare una posizione strategica, ma posta sotto il fuoco di un cecchino inesorabile che fa fuori in fila ben quattro nostri validi campioni costretti a quella dura e mortale missione, e qui c’è senza dubbio la testimonianza della implacabile strategia nostrana di sacrificare le vite, con totale insensibilità per la loro sorte, ma quella successione di misere morti appare un po’ troppo meccanica. Quando poi arriva il turno di un quinto candidato alla morte, i due decorsi “normali” sarebbero che lui affrontasse rassegnato e passivo la morte quasi sicura, o disertasse, per esempio arrendendosi al nemico. Ma De Roberto sceglie ancora una volta un tertium, sfuggendo ai dati statistici, non risulta infatti che fosse frequente il caso del soldato che, posto di fronte a quel dilemma, decidesse di spararsi sul posto.
Federicoo De Roberto, La paura e altri racconti di guerra, a cura di Gabriele Pedullà. Garzanti, pp. 431, euro 13.

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