Arte

De Chirico: una retrospettiva stazionaria

Il Palazzo Reale di Milano offre una retrospettiva di Giorgio De Chirico senza dubbio molto corretta, con parecchi capolavori a documentare le varie epoche dell’artista, che peraltro pare quasi un remake di una mostra che nella stessa sede si tenne ben mezzo secolo fa, nel 1970, come se gli anni trascorsi da quella data fossero stati indifferenti alle fortune dell’artista, o comunque incluse, previste, scontate in quella puntata precedente. E invece, da quel momento in poi, De Chirico ha goduto di un enorme, rinnovato successo, già nei pochi anni che ancora gli rimanevano da vivere, ma soprattutto in seguito. Si può ben dire che egli sia stato uno dei dominatori di quel periodo molto incerto che ha preso il nome ambiguo di postmoderno. La ragione di tanta piattezza e deficienza della mostra di oggi risiede soprattutto nella scelta del curatore, Luca Massimo Barbero, che non sembra avere nel suo curriculum ragioni particolari per essere insignito di tanto onore. Forse è un riflesso della sua condizione di reuccio della Laguna, il che per esempio gli permette di portare in giro, a suo uso, i capolavori di Peggy Guggenheim, e forse nell’assegnazione di questa curatela c’è pure una traccia della casa editrice Marsilio, veneziana di fondazione, anche se ora con pacchetti azionari collocati altrove. Naturalmente Barbero cita in mostra e in catalogo alcuni dei massimi critici intervenuti nella vicenda dechirichiana, ma tace, forse per sdegno, non ritenendoli all’altezza, altri molto più pertinenti al rilancio di fama che l’artista ha avuto proprio a partire e in occasione dalla mostra del 1970. Per esempio, se non sono distratto, mi pare che non ci sia alcuna menzione di una lettura che feci proprio visitando quella rassegna, e avvertendovi un “clic” che mi permise di suggerire una tesi totalizzante, espressa poco tempo dopo in un convegno sul Surrealismo organizzato a Salerno da Filiberto Menna e Angelo Trimarco, poi ripresa in un mio saggio, “Tra presenza e assenza”, del ’74, che tra poco rivedrà la luce. In genere, l’efficacia di quella mia rilettura mi è stata riconosciuta da molti, tranne Barbero, con danno non tanto mio quanto del giudizio d’insieme da dare all’artista. Infatti cancellavo l’infausta interpretazione pur dominante che divideva l’intera carriera di De Chirico in una fase “buona”, fino a tutti gli anni Venti, poi seguita da una fase “mala”, quasi vergognosa, da cancellare, o da lasciare in retaggio ai reazionari di tutte le specie, coalizzati nella difesa di “quel” De Chirico”, ritenuto invece indifendibile dai sostenitori delle avanguardie vecchie e nuove. La mia tesi era che l’artista ha usato un metro unitario e metodico, procedendo a rivisitare sistematicamente un museo standard dei tesori dell’arte del nostro Occidente, solo che nel super-lodato periodo “metafisico” la rivisitazione si era rivolta alle stanze ”buone”, ben accette al nostro gusto contemporaneo, quali l’arcaismo greco e le mirabili prospettive del Quattrocento fiorentino, poi, con perfetta coerenza, il “pictor optimus” si era dato a passeggiare per le stanze “proibite” di un Seicento barocco e di uno sfacciato realismo ottocentesco, tirandosi addosso le contumelie per il suo rifacimento pedissequo di quei dipinti condannati dal gusto contemporaneo. Alla fine, applicando a se stesso la concezione einsteiniana dello spazio curvo, con un regresso finale al punto di partenza, era ritornato alle stanze ”giuste” del periodo metafisico, ma ben comprendendo la necessità di dare un segno di questo “ritorno a”, ridipingendo quelle opere con un colorismo leggero, quasi kitsch, intonato proprio alla scala cromatica, dei gialli limone, verdi pistacchio, rosa fragole, che frattanto la nuova architettura del postmoderno stava adottando e praticando in tutto il mondo. Naturalmente altri sono stati concordi con me. Per esempio Lorenzo Canova e Riccardo Passoni a “questo” De Chirico, visto in chiave di viva attualità, hanno dedicato una efficace rassegna alla GAM di Torino, con un titolo ,“Ritorno al futuro” che coniuga bene le due dimensioni temporali, e il loro cortocircuito. Canova, allievo di Calvesi, lo ha fatto anche nel nome dello studioso romano che non aveva esitato a parlare di una fase neo-metafisica del nostro pittore. Questo intenso lavorio critico che ha investito, riscattato, rilanciato l’arte dechirichiana sfugge quasi del tutto alla rassegna opaca e grigia che ora ci offre la pur augusta sede milanese.
De Chirico, a cura di Luca Massimo Barbero, Milano, Palazzo Reale, fino al 19 gennaio. Cat. Marsilio-Electa.

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