Continua instancabile l’attività di Roberto Pazzi narratore. Due anni fa ci aveva dato “Lazzaro”, subito accompagnato da un mio convinto apprezzamento, simile del resto a quello che nel corso degli anni ho tributato a quasi ciascuna delle sue fatiche man mano che uscivano. E ora ecco questo “Verso Sant’Elena”, che magari è da prendere molto più letteralmente rispetto a quanto ci veniva proposto in tante occasioni precedenti. Nel nostro Roberto c’è sempre uno storico che studia bene i dossier su cui lavora, ma in genere accanto ai dati reali compaiono quelli irreali, o virtuali, gli inserti dovuti all’immaginazione dell’autore. In questo caso invece una componente del genere l’ha tenuta a freno, dandole ben poca esca. In definitiva, in quella che davvero è una cronaca di quanto accadeva sulla Northumberland, il bastimento che portava l’Imperatore verso la sua ultima dimora, si inserisce un solo elemento immaginario, quando il prigioniero illustre fa sorgere nella sua triste cabina lo spettro di un primo amore, tale Eugénie, che aveva allietato i suoi anni giovanili, ispirandogli anche un romanzo, quando la sua carriera militare era ancora sul nascere e il grande Corso non aveva lasciato cadere la pista letteraria. Ma per il resto Pazzi ci porta davvero a bordo del Northumberland, coi suoi due mesi di noiosa attraversata, condivisa da una ciurma costituita, pare incredibile, dalla bellezza di un migliaio di marinai, sottoposti alla noia, alla fame, alle punizioni corporali che la marina di Sua Maestà britannica era pronta a infliggere. Napoleone è trattato abbastanza bene, il che gli consente di errare col pensiero, e all’autore di dare consistenza, pienezza di dettagli al responso sibillino dato dal Manzoni in morte del personaggio famoso. Intanto, non è che Pazzi dimentichi del tutto certi suoi exploit precedenti, forse ci potrebbe essere di nuovo qualcuno che muova “Cercando l’imperatore”, ma più che mai dovrebbe mutarsi in uno stormo di uccelli, diversamente il condottiero abbattuto non può sperare in un arrivo dei “nostri” a liberarlo, questa volta il nemico principale, gli Inglesi, avevano fatto bene i loro conti, pur salvandolo dalle pretese degli alleati che avrebbero voluto comminargli la morte. Questa volta si è stati ben attenti a non ripetere l’errore fatale di comminargli una “comoda” prigionia sull’isola d’Elba, che è tra i ricordi che più assediano la memoria del prigioniero, quando era andato a trovarlo una donna rimasta a lui fedele, la polacca Walewska, portandogli anche il figlioletto, in sostanza ufficialmente riconosciuto, mentre il Re di Roma, il rampollo avuto da Maria Luigia d’Austria, che fine avrà mai fatto? Questa una angosciosa domanda che Napoleone pone a se stesso, mentre l’Autore, comportandosi come il demiurgo quale era previsto nel regime narratologico ottocentesco, fa incursioni all’interno di questo personaggio, mostrandocelo ancora imbevuto del ricordo di tanto padre, pronto a rivendicarne la gloria, ma alla fine domato, piegato da un nonno austero e implacabile. E soprattutto abbandonato dalla madre, appunto Maria Luigia, che vede in lui il frutto di un’offesa inflittale dalla ragion di stato, e che dunque non vuole concedergli alcun tributo di affetto, mentre sogna di rifarsi l’esistenza anche sul piano erotico, dandosi ad amori col Neipperg, e aspirando alla libertà che le potrà dare lo staterello di Parma. I ricordi del prigioniero illustre svariano, li animano dei “flashback” dedicati alla madre Letizia, alla sorella Paolina, che sono il lato buono delle sue memorie, magari assieme alla mai dimenticata creola, Giuseppina Beauharnais. Ma c’è pure il lato negativo degli ex-fedeli che lo hanno tradito, come Murat, come il sempre infido Talleyrand, e perfino lo zar di Russia, su cui pure credeva di aver stabilito un influsso quasi paterno. E dubbia è anche la fedeltà della piccola scorta che lo segue, un Las Cases che punta solo al guadagno che potrà trarre dalla possibilità di pubblicare le memorie della vittima illustre, e altri, immersi in oscure manovre. Insomma, un quadro triste, deprimente, tanto che l’Imperatore è quasi convinto a darsi la morte prima ancora di venire sbarcato sul miserabile scoglio. Del resto, tra i membri dell’equipaggio ce n’è pure uno cui forse l’ammiragliato britannico ha conferito l’ignobile incarico di avvelenare gradualmente il prigioniero, che è solo un inciampo, una grave soma. Infatti questo Pazzi, in veste soprattutto di storico, non si esime neppure dal darci i cosiddetti “conti della lavandaia”, snocciolando i numeri di quanto sarebbe costato all’Inghilterra albergare a lungo quel personaggio sgradito. Pazzi insomma riecheggia la tesi molte volte accennata di una morte procurata a Napoleone, però sei anni per condurla a buon fine sembrano un periodo un po’ troppo lungo. Del resto, mentre il navigatore coatto è libero di errare col pensiero di qua e di là dell’enorme scacchiere che ha frequentato nella sua turbinosa esistenza, non viene seguito quando approda a S. Elena. Questa resta una meta lontana, ovvero ci limitiamo solo ad andare “verso” di essa. Ma come si conviene a chi narra storie reali, anche Pazzi non si esime dal compito di dirci come sino andati a finire i protagonisti della vicenda, compresi i discendenti, e così compare anche un dato incredibile, una buona azione compiuta da Hitler, che quando occupò Parigi vi fece trasferire accanto alla tomba di Napoleone la bara del figlio, sottraendola alla Cripta dei Cappuccini, dove a Vienna dormono il sonno ultimo tutti gli Asburgo.
Roberto Pazzi, Verso Sant’Elena, Bompiani, pp. 189, euro 15.