Alessandro Ferri, noto con lo pseudonimo di Dado, è dagli inizi del nuovo secolo uno dei maggiori protagonisti italiani di un fenomeno di grande attualità, la “street art”, che a sua volta è parente stretta dei Graffitisti newyorkesi, capeggiati da Keith Haring e Jean-Michel Basquiat, e addirittura dei Muralisti anni Trenta, dai Messicani ai nostri Novecentisti guidati da Mario Sironi. O in genere si può anche parlare di “wall paintng”, una modalità universale attraverso cui si riaffaccia sua maestà la Pittura. Il secolo precedente si era aperto con una formula di negazione, nella credenza che la nuova era fosse da lasciare nelle mani del macchinismo e dei suoi schemi di un rigoroso spirito geometrico, preludio di Gropius e del Bauhaus, dove in effetti i pittori non erano graditi. L’austriaco Loos aveva pronunciato il famoso scongiuro, “l’ornamento è un delitto”, ma in seguito c’erano stati vari fenomeni di rovesciamento di quel detto, e ora addirittura la formula si può capovolgere, l’ornamento è un bisogno fisiologico dell’umanità, guai quindi alle pareti bianche, intonse, vergini. Da qui la tendenza ad aggredirle con una grande varietà di interventi, alcuni di pessimo gusto, gesti inconsulti e dannosi, da cui almeno i centri storici delle nostre città vanno accuratamente difesi, Ma anche quando sulle pareti intervengono dei pretesi artisti, c’è un pericolo sovrastante, che cioè pur attraverso buoni propositi si rilanci un figurativismo di bassa lega, tributario di un surrealismo facile e irresponsabile, Io non esiterei a mettermi alla testa di una crociata per cancellare queste cattive prestazioni. Ma non è certo il caso di Dado, che se non sbaglio ripudia quasi del tutto dal suo repertorio l’iconismo, preferendo valersi di un linguaggio, non diciamo astratto, termine anch’esso abusato, ma proprio aniconico, magari cominciando proprio a giocare col suo nome di battaglia, agitando come dei dadi e rovesciandoli sulle pareti, in combinazioni multiple e ingegnose, Oppure ricorre a dei nastri che si attorcono come gli anelli di Moebius, arricciandosi, intricandosi in nodi infiniti. In ogni caso le sue immagini non pretendono di balzare fuori dalle pareti, ma quasi le accarezzano, gli fanno il solletico, si acquattano negli intonaci, sfruttando magari anche le screpolature, le crepe che vi si trovano, quasi cercando di rientrare nei muri, di venirne riassorbiti. Insomma, non ci sono emergenze spudorate, vistose, insostenibili, ma procedimenti perfettamente intonati alle esigenze della bidimensionalità. La fitta attività svolta da Dado nell’ultimo decennio meriterebbe un discorso più approfondito. Questo mio intervento estemporaneo e inadeguato è motivato dal fatto che mi trovo in vacanza a Cortina d’Ampezzo, dove Dado arriverà tra poco per fare una installazione in piena natura, non più accarezzando pareti ma muovendosi a tutto campo in un ambiente boscoso, e in questo caso mi pare che ricorra al gioco detto shangai, cioè a una moltitudine di bacchette, di asticciole che si squadernano nello spazio, oppure vi erigono come delle palizzate. Non so se le mie attuali difficoltà deambulatorie mi consentiranno di andare a visitare in presa diretta queste sue installazioni, magari ritornerò sull’argomento in termini più appropriati, ma intanto ho voluto giocare d’anticipo rendendogli un omaggio pienamente meritato.