Ho già osservato più volte che male ha fatto la Triennale di Milano a rinunciare alla propria ragione istitutiva, cioè a una rassegna dell’architettura da condursi con ritmo triennale, facendo per questa via un grande dono alla Biennale di Venezia, consentendole di tenere proprio col suo ritmo biennale una mostra in questo settore, mostra che è di grande successo, accanto alla sorella maggiore dedicata all’arte. In compenso il magnifico edificio eretto dal Muzio ha provveduto a ristrutturare i propri spazi sfruttando appieno la sua enorme capienza e offrendo ogni volta una ricca serie di eventi espositivi. Non ci si annoia di sicuro, a visitarne i due piani. Fra l’altro, salendo al secondo, ci si trova subito davanti una sala non troppo ampia ma preziosa per ospitare prove coerenti e nello stesso tempo leggere di qualche artista che conta. Ricordo di avervi ammirato in passato i progetti utopistici che lo scultore Francesco Somaini ha dedicato alla Grande Mela. Ora le stesse pareti ospitano una prova di tutt’altro genere ma ugualmente suggestiva che viene da Gianluigi Colin, figura interessante all’incrocio tra varie attività, il giornalismo che esercita al “Corriere della sera”, con l’aggiunta di incarichi di natura tecnica per cui ha a che fare con le rotative, con i riti del vecchio cartaceo. Pare che questi esigano che i fogli ancora freschi di stampa vengano fasciati da carte protettive. E’ allora possibile farne delle specie di “Sudari”, così si chiama una mostra di 17 di questi reperti, e la similitudine non potrebbe essere più esatta. Si tratta infatti di una sottile essudazione di inchiostri, con tinte pallide, marcescenti, molto simili proprio a deiezioni di un qualche corpo che stia andando in decomposizione. Questo cadavere chiamato a stampare le sue ultime orme su una superficie, mi induce ad applicare anche nel suo caso la bella quanto enigmatica espressione usata da Virgilio, quando in qualche punto dell’Eneide gli è scappato un mirabile “sunt lacrimae rerum”. Siamo di fronte a uno di quei casi in cui la realtà dimostra di avere più fantasia di noi, come aveva già intuito Duchamp, nell’atto di raccogliere gli oggetti nella loro prosaicità, magari “aiutandoli” a esprimere le valenze di cui gli risultavano portatori. E così pure questi “sudari” stesi con pazienza dal nostro Colin sono altrettanti ready made “aiutati”, a spremere letteralmente i vari umori di cui sono pregni. L’operazione a sua volta è sottilmente “aiutata” da un accompagnamento critico steso da Bruno Corà, che in proposito ci parla di “pale”, senza aver paura di fare ricorso a un termine carico di responsabilità storica, ma aggiungendo subito che esse sono consacrate a una “afasia visiva”, a un rito volutamente ambiguo, tra il vedere e no, con abile sfruttamento di valori umbratili, serotini, sospesi tra il dire e il non dire. Il fascino è aumentato anche dalla natura delle superfici chiamate a raccogliere questo pianto segreto, che infatti hanno pure esse uno statuto ambiguo, sospeso, in quanto si tratta i di “tessuti-non tessuti”, risultanti da una delle tante sostanze sintetiche di cui oggi ci serviamo, di un poliestere. L’ispirata nota di accompagnamento stesa da Corà continua a fornirci termini calzanti e felici, come quando definisce questi taciti testimoni del nostro presente come “sfingi che ci interrogano sull’oscura latitudine del nostro avvenire”. Come ben si sa, infatti, siamo in una fase di transizione, stiamo abbandonando i conforti e le sicurezze del cartaceo per avventurarci nelle plaghe suadenti dell’elettronico, che però non conosciamo quali sorprese ci possano riservare. E dunque, la presente mostra corrisponde a un rito mortuario, quasi di seppellimento di una realtà che sta scomparendo, ma che ci invita anche a raccoglierne con “pietas” le ultime memorie. Sono come i trepidi e tiepidi fuochi fatui che si elevano da un cimitero.
Gianluigi Colin, Sudari, Milano, Triennale, fino al 10 giugno. Presentazione di Bruno Corà.