La solita ben informata Artribune ci avvisa che la Cassa di Risparmio di Jesi dedica un ricordo a “La pittura di Claudio Cintoli”, artista ahimè vissuto troppo poco, 1935-1978. A curare questa ricomparsa è Ludovico Pratesi, cui fa onore una coerente stima e amicizia prestate a quel lontano protagonista, come del resto aveva già fatto circa dieci anni fa presentandolo in una mostra al romano Macro, che anch’io, ugualmente estimatore dello scomparso, mi ero affrettato a recensire sull’”Unità”, dove scrivevo a quel tempo. Non è mio costume fare un “copia e incolla” di miei pezzi stesi in occasioni precedenti, ma qui siamo di fronte a uno scomparso, che dunque, per valerci del magnifico verso di Mallarmé, è “tel qu’en lui meme l’éternitè le change”, cioè i giochi sono ormai chiusi, nulla vi si può aggiungere. Partivo appunto osservando: brutta cosa, per un artista, morire giovane. La crudeltà del triste evento può essere alleviata solo se, pur nel breve tempo concessogli, egli è riuscito a esprimere un’idea forte, un’ossessione tutta sua, strettamente personale. Questo è il caso di Claudio Cintoli che ha coltivato un suo “chiodo fisso”, e forse questo era davvero il titolo più opportuno da dare alla giusta e meritata retrospettiva ora dedicatagli dal Museo d’Arte Contemporanea di Roma (Macro), invece de “L’immagine è un bisogno di confine”, addirittura traditrice, in quanto l’impulso primario di Cintoli era semmai di sconfinare, di lacerare l’immagine per dare libera uscita a quanto essa pretendesse di celare al suo interno; ma l’espressione, per quanto impropria, era sua, e dunque è corretto averla rispettata. Questo esame di una beve ma concentrata produzione deve partire da un suo autoritratto fotografico dove l’artista sembra quasi ispirarsi ai celebri versi di Gozzano, “l’immagine di me voglio che sia/sempre ridente come in un ritratto”, ma è un riso venato anche di provocazione, come dimostra proprio il chiodo aguzzo che il protagonista ostenta in primo piano, quasi a infilzarsi, a sfida di sé e degli altri, E quest’idea di un corpo tagliente che minaccia la pienezza di una sfera, di un ammasso di materia, percorre tutta la breve carriera del Nostro, già presente negli anni ’60 quando entra in scena a Roma, in un clima tra Pop e Op Art, tra icone sottratte alla pubblicità e qualche pallottoliere puntiforme. Cintoli si trova a costeggiare la gloriosa Scuola di Piazza del Popolo, ma mentre le immagini di Schifano e compagni sono pacate, impegnate a riscattare la qualità stereotipata dell’iconosfera dominante, lui ci mette già la sua cattiveria, basti vedere per esempio una strisciata che coglie il corpo tondo della luna in una fase di eclisse, quando il globo solare via via esorbita, ed è già l’idea-base del saltar fuori da un perimetro prestabilito. E c’è poi anche il volo di un airone, ad ali spiegate, smerigliate, così da risultare ancor più incisive e foranti. Altrove di aironi ce n’è uno stormo, quasi per un omaggio a una visione “ecologically correct” del mondo animale, ma quel fremere di ali incide la superficie, la manda in briciole. Compare anche qualche volto stereotipato di diva del cinema, magari l’inevitabile Marylin, infatti nel frattempo Cintoli si è recato anche nella casa madre del Pop, negli USA, ma anche in questo caso si può star sicuri che interviene un taglio crudele a scindere la popstar, a minacciarne le labbra beanti in un sorriso standard. Non solo, varcato il capo dei ’60, e giunti gli anni ‘70 dell’aggressione dei materiali “poveri”, Cintoli comincia a gravare le immagini su superficie di un carico di stracci, di oggetti residuali pescati tra gli scarti, è come la pretesa di imbottire delle bambole per poi andare a sventrarle. Un’idea concomitante è pure quella di fabbricarsi una lunga corda, di quelle che devono servire per fuggire da un carcere, poi, in attesa dell’uso, quelle vie di salvezza vanno arrotolate su se stesse, come ciambelle, ma ne deve però emergere il “chiodo fisso”, quasi a simboleggiare che si tratta pur sempre di strumenti che servono per evadere, e dunque la loro rotondità resta sempre provvisoria. Funziona molto bene anche il ricorso alla forma archetipa dell’uovo, purché sia pronto a dischiudersi, come già annunciano i forellini che ne costellano la superficie. Ma infine, si sa bene che gli anni ’70 sono consacrati al comportamento, alla performance, e Cintoli li affronta nel modo migliore, avendo come inserviente di prestigio Fabio Sargentini, il gallerista che, nell’enorme scantinato attiguo a Piazza del Popolo, diviene l’ amministratore di tutta quella fase, lanciando in orbita, tra gli altri, De Dominicis, con le sue materializzazioni di frasi fatte, sul tipo della “Mozzarella in carrozza”. Ed è chiaro che il “chiodo fisso” di Cintoli appartiene alla medesima famiglia concettuale. Ultimo atto, l’artista si racchiude in un enorme inviluppo, una gigantesca crisalide, in rappresentanza di tutti i corpi panciuti fin lì realizzati, e ne esce per gradi, forando la superficie con le unghie, con le mani, spettacolo elementare ma straordinario, che io stesso ho avuto il piacere di registrare proprio agli inizi del ’70 in una sequenza video. Squarcio di un involucro, lenta e graduale emersione di un volto e di un corpo.