L’occasione migliore di parlare di Claudia Losi (1971) l’ho avuta quando, con idea alquanto peregrina, nel 2005, mi era venuto in mente di celebrare la nascita della mazziniana “Giovine Italia” con una mostra, il cui fine era di raccogliere il fior da fiore della sperimentazione artistica in Italia in quel momento, vincendo l’allarme degli invitati che mi dicevano di non sapere nulla di quell’evento, ma io li rincuoravo dicendo che per parte mia era appena un pretesto per operare una selezione dei migliori. E tra questi c’era appunto la Losi, che ora espone in un museo di Gerusalemme. Il medio oriente le si addice, perché la sua arte si basa sullo sfruttamento di risorse tissulari, come si conviene a una cultura dalle radici pastorali, nascente da lunghe attività muliebri rivolte a tessere in vari modi. Anche dalla nostra Losi escono, in prima battuta, candidi panni che ricadono sul pavimento, ma quelle superfici immacolate si prestano subito a ricevere ricami, anche in quelle forme ”novantiche” che sono i tatuaggi. A questo fine, oltre alle lenzuola o a formazioni comunque tessili, possono servire anche le superfici di mani e di braccia, che la Losi ostenta fieramente, come opere d’arte inoculate nella sua stessa pelle, nel corpo, quasi come imprese delicate di Body Art. Oppure, ritornando all’ora zero delle superfici intonse, queste possono subire stringimenti, contorcimenti, al modo di una massaia che, se avesse per le mani della pasta morbida e plastica, ne ricaverebbe agnolotti o tortelli, o se vogliamo restare in un ambito più prezioso, parliamo di ricami a punto d’ape o di vespa. Una volta queste cure erano finalizzate a produrre la dote di qualche giovane sposa di nobile censo, ora l’artista se le fa per se stessa, o per stupire, convincere, affascinare il pubblico delle sue mostre, Inutile dire che anche il colore asseconda queste varie caratteristiche, ma forse non si dovrebbe parlare di colore, dato che, per coerenza con la natura stessa di questi materiali di base, l’artista preferisce i bianchi, o certi azzurrini slavati, quasi respingendo lontano da sé la tentazione, la corruttela delle tinte troppo legate alla materialità delle cose, inseguendo invece un sogno di purezza, di candore illimitato. Il monocromo, anzi, l’acromo sono tra i caratteri di questo esercizio, però compensati dal pur minimo spessore che accompagna le distese dei tessuti, in un ben distribuito gioco tra l’apparire e lo sparire, affrettandosi a rientrare in una dimensione di assenza e di silenzio.
Claudia Losi, Gerusalemme, Hansen House, fino al 26 dicembre.