Per me è una festa quando sulle pagine di “Repubblica” o del syo supplemento “Robinson” vedo comparire un articolo di Antonio Pinelli, cui mi lega un’amicizia addirittura in età adolescenziale, che mi ha visto di lui più anziano di qualche anno, e anche di più pronta partenza un una scala di importanza critica, da cui poi io sono disceso, mentre lui oggi è affermnato come il nostro miglior modernista, parola da prendersi nel senso manualistico, relativa cioè ai secoli dal 500 al 700. E proprio in questa veste ho letto con grande interesse un suo articolo, sul “Robinson” del 12 marzo scorso, dedicato alla figura di Francesco Boneri, omaggiato da una mostra nella rinata Accademia Carrara di Bergamo. Giustamente è definito l’alter ego di Caravaggio, in quanto viene a rafforzare l’identità sfuggente del primo tempo del Merisi appena giunto a Milano, quando dipinge in modi fermi, miracolosamente intatti, impastati di luce. Su quella fase non è stata ancora fatto un sufficiente esame critico, neppure dal massimo lodatore del genio lombardo, Roberto Longhi, che invano cerca di allungare il lenzuolo padano-lombardo per tentare di coprire quegli esiti straordinari, e fra l’altro, apprendo proprio dall’articolo di Pinelli, perde anche l’occasione fornita da Cecco, in cui crede di intravedere un caravaggista spagnolo di seconda fila, mentre è l’unico a stare alla pari del Maestro in quegli anni di splendore intatto,. Anzi, addirittura con la capacità di andare anche un po’ più in là. Si sa bene che uno dei miracoli del Caravaggio prima maniera stava in certe nature morte, di cui poi due longhiani eccedenti le prudenze e il senso di misura del loro Maestro, Federico Zeri e Mina Gregori, hanno allungato il catalogo senza freni, meritandosi i rimbrotti di un altro schieramento longhiano a loro avverso. Ebbene, quelle nature morte “più vere del vero”, quasi da ricordare quelle create con la gommapiuma dall’appena scomparso Gilardi, Cecco le sa mettere addirittura in prospettiva, ma è come una pista per permettere poi di dominarle a qualche figura umana, incastonata dentro quel tripudio di “vero più del vero”, Infatti le nature morte non solo si stendono in primo piano, ma si incuneano anche ai lati dello spettacolo, su mensole intermedie, che mirano ad assumere un protagonismo addirittura a vantaggio di quello umano, fornendo in tal modo una completezza, tra presenza umana e oggettistica, che non sarà ritrovata dai pur industrisi specialisti di natura morta del calibro del Baschenis, Comunque, resta il mistero, da dove viene tanta fermezza, preicione, compattezza di pittura? Io dichiaro la mia insufficienza a chiarire il mistero, forse vi deve indagare uno specialista ben più dotato di me come attualmente, e in misura insuperabile, è appaunto Antonio Pinelli.