Arte

Cavenago tra mobilità e immobilismo

Nella Biennale di Venezia del 1990 sono stato inserito tra i membri della commissione internazionale che doveva fare le nomine per l’”Aperto” di quella edizione, in cui esisteva ancora questa utilissima sezione, poi dannosamente abolita. Credo di aver fatto un buon lavoro, insistendo in primo luogo perché vi fosse invitato Jeff Koons, che così credo facesse la sua prima apparizione presso di noi, o forse addirittura in tutta Europa, Si comportò molto bene commissionando a degli  intagliatori altoatesini un monumento di lui stesso abbracciato a Cicciolina, secondo quel legame che non fu affatto effimero né rispondente a una trovata pubblicitaria. Fu anche per me l’occasione per dichiarare che Koons in quel momento era la presenza più significativa nell’intero panorama mondiale, acquistando presso di lui un merito che poi per qualche tempo mi ha riconosciuto concedendomi la sua amicizia e un pieno accesso, nelle mie visite a New York, al suo studio. Ma non era quella la sola scelta opportuna da me effettuata, vi erano anche tre su quattro dei membri della Scuola di Piombino Falci, Modica, Pietroiusti, alcuni Nuovi Futuristi,  altre presenze isolate, come per esempio Ernesto  Jannini, e anche due tra i più intraprendenti milanesi, quali  Stefano Arienti e Umberto Cavenago. Del primo ho avuto più volte occasione di parlare anche in seguito, mentre l’altro mi era uscito di vista. Eppure era in possesso di una formula singolare, che direi di un minimalismo greve, inerziale, come è proprio di tutto quel movimento, che però Cavenago intendeva mettere in movimento, dotando i suoi pezzi di ruote, seppure di enormi dimensioni, da non poter dire se erano favorevoli al movimento o invece ne costituivano un voluto ostacolo. Poi, mi pare, si era allontanato da quelle comparse massicce, sospese tra mobilità e immobilità, affidandosi al medium aereo dell’immagine elettronica. Ora è tornato in scena con un’opera, Sweet Home, in cui rientra in pieno nel meglio delle sue doti, al punto che quell’aggettivo, sweet,  viene dato all’opera quasi con intento paradossale, si tratta di una dimora tutt’altro che “dolce”, anzi, radicata in pannelli di duro acciaio, e posta in bilico, sull’orlo di uno sprofondo d’acqua, non so se marina o fluviale, Qualcosa da far pensare alle inondazioni di questi giorni. Il tutto infatti assume un equilibrio precario, tanto da ricordarci certe produzioni di Gianni Colombo, quando anche lui si sottraeva a una costruzione simmetrica e posta in sicuro equilibrio, tentando invece vie oblique e precarie. Il tutto ci viene offerto a Suzzara. A completare l’aspetto volutamente arrischiato di questa produzione c’è un invito dell’artista rivolto al pubblico, che potrebbe partecipare a una sistemazione diversa di quei pannelli in acciaio corten, cercando di dare loro equilibri più precari. Siamo insomma a una ben calcolata tensione tra mobilità e greve immobilismo, che mi pare essere la formula vincente del nostro artista.

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