Leggo sempre con attenzione le recensioni che Marco Belpoliti dedica, sulle colonne dell’”Espresso” e di “Tuttolibri”, a opere di narrativa. Di recente mi ha sorpreso quanto ha dichiarato a proposito del “Pensatore solitario” di Ermanno Cavazzoni. Il dissenso non sta nel giudizio di valore, positivo, su cui anch’io potrei convenire, ma sulla strana pretesa, avanzata a favore dell’interessato, che si tratterebbe di un autore di difficile collocazione quanto al genere letterario da riconoscergli. Mi sembra invece ovvio che si debba vedere in lui un nipotino, forse fin troppo ossequiente, e gliene potrebbe venire anche qualche danno, alla grande lezione di Jonathan Swift, non tanto nel suo volto di insuperabile orditore di viaggi nel fantastico, ma nell’altro, ugualmente incisivo, di estensore di apologhi intrisi di sarcasmo, di umor nero.
Si pensi, fra tutti, allo straordinario gioiello consistente nel consiglio di come risolvere la piaga, dilagante nell’Inghilterra del Settecento, ma pure in ogni altro paese del mondo, e destinata a prolungarsi anche nel secolo seguente, dei poveri trovatelli, dei figli illegittimi di amori clandestini abbandonati alla pubblica carità. Il perfido consiglio era di nutrirli, di ingrassarli come porcellini, e di portarli sulle mense degli agiati borghesi. Visto che sto dando qualche tiratina d’orecchio agli esegeti del nostro Cavazzoni, metto in lista anche un giudizio che campeggia nel retro di copertina di questa raccolta, emesso dal sommo Asor Rosa che gli riconosce di scrivere “in una prosa nitida, precisa e volutamente semplice e definitoria”. Ma questi sono appunto i caratteri che chiunque segue la via di Swift deve affrettarsi a rispettare. Le prediche, seppure, come in questo caso, recitate a rovescio e con intenti parodistici, devono essere chiare e comprensibili, i frequentatori di questo genere non si possono concedere stilismi arditi, in loro la denotazione deve prevalere su ogni possibile connotazione o ambiguità espressiva.
Ma certo, detto tutto questo, non si può negare al nostro Cavazzoni la lusinghiera patente di appartenere a questa illustre schiera di commentatori ironici, paradossali, iperbolici, e via elencando, che oltretutto, accanto al capostipite Swift, può vantare tanti altri degni seguaci in Italia. Lasciando stare l’umorismo di Pirandello, si pensi ai casi più pertinenti di un Achille Campanile, o di uno Zavattini primo tempo, e ora di uno Stefano Benni. Semmai, un limite di Cavazzoni è di inserirsi in questa abbondante e meritoria pattuglia in modi troppo seriosi e meccanici, dimostrandosi troppo attento a prendere per traverso le iniziali enunciazioni conformiste-perbeniste. In altre occasioni, si pensi soprattutto all’esordio coi “Lunatici”, questo autore ci è sembrato più libero nei voli fantastici, più estroso, tanto da stuzzicare perfino l’interesse del grande Fellini, Forse a irrigidire quest’ultima prestazione contribuisce l’origine degli scritti, nati come brevi novelle per un giornale appunto serioso, tutto dedito agli affari, quale il “Sole24ore”, seppure più sciolto dalla consegna ufficiale nelle pagine del supplemento domenicale. Ma il godimento c’è, le invenzioni esilaranti fioccano, e in definitiva il fatto che ci vengano servite a freddo ne aumenta l’effetto comico, si sa bene che la prima regola di chi pronuncia motti di spirito è di presentarsi con un volto intonato a una assoluta neutralità, facendo finta di accettare fino in fondo i paradossi che viene enunciando. E dunque, abbandoniamoci pure a un largo sorriso, o riso franco e schietto, mentre l’impassibile conduttore va snocciolando le più inverosimili proposte, come quella di uccidere i pensionati perché liberino la comunità dal pagamento delle pensioni, o di concentrare le feste in un’unica giornata, per risparmiare in vacanze e in tempo libero. Esilarante è poi l’andare a constatare le fatiche che ci attenderebbero se volessimo abbracciare un’esistenza nomade, cercando di rinunciare al domicilio, e perfino al codice fiscale, o di mettere a frutto una vincita al lotto. Tanti discorsi alla rovescio, tanti rovesciamenti del corso naturale delle cose. Il tutto esibito, servito in tavola proprio con un massimo di freddezza che certo giova all’effetto comico finale, ma diffonde anche attorno a sé un senso gelido, di applicazione come di un compito perverso, nell’accezione etimologica della parola, e comunque adempiuto proprio da un “Pensatore solitario”, da qualcuno che certo ha il mondo “in gran dispitto”.
Ermanno Cavazzoni, “Il pensatore solitario”, Guanda, pp. 172, euro 15.