E’ giusto che io mi associ al cordoglio unanime con cui è stata accolta la scomparsa di Andrea Camilleri, andando a pescare nella mia memoria quanto mi ha legato a lui in tutti gli anni trascorsi. Con un contatto diretto, che ci fu forse attorno al 1974, quando Enzo Lauretta, industrioso gestore del ricordo di Pirandello nella sua Agrigento, mi chiamò per la prima volta a uno degli incontri cui poi ha dato felice seguito vita natural durante. Allora ero riconosciuto forse come il primo “pirandellologo” nazionale, e proprio in questa veste Camilleri, presente in quell’occasione, mi aveva incontrato, quando in definitiva potevo essere perfino reputato più noto di lui. Tanto che poi se ne è ricordato, allorché era giunto al culmine del suo successo, e venne invitato non ricordo bene da quale giornale nazionale a presentare una selezione di opere pirandelliane, e proprio introducendo la collana ebbe la generosità di menzionare la mia “Barriera del naturalismo”, come il punto di partenza di una lettura appropriata del grande siciliano. In precedenza, quando finalmente Camilleri aveva iniziato la sua tardiva, per suo espresso riconoscimento, carriera di “giallista”, non ero mai stato molto favorevole a lui, ma in un quadro generale di diffidenza, magari da critico “emunctae naris”, verso tutto quel filone popolare, pur riconoscendone l’importanza, e anche la capacità si riuscire a sollevarsi, talora, a grandi altezze, come nel caso di Dostoevskij o di Gadda. Mentre anche nei pur massimi cultori, da Agatha Christie a Georges Simenon, non manca mai il ricorso a stereotipi, a meccanismi fastidiosamente replicati, il che ovviamente si è trasmesso anche nella produzione di Camilleri. Ma senza dubbio con un vantaggio, rintracciabile nel suo eccellente impasto tra lingua nazionale e inserti dialettali. Anch’io mi sono compiaciuto di apprendere e di fare largo uso di tutta quella nomenclatura, basata sui cabasisi, sul nivuro, sul taliare, sui vari settantini e ottantina, e così via. Un ottimo impasto, in cui ritengo che Camilleri sia riuscito più avvincente rispetto al suo predecessore Gadda, un narratore, quest’ultimo, verso cui peraltro è ben nota la mia costante “infedeltà”. Il ricorso al dialetto da parte dell’Ingegnere lombardo era un modo di imporre una superiorità culturale sui suoi modesti interlocutori, fino quasi a umiliarli, mentre il suo successore, ammettiamolo, ne ha saputo fare uno strumento di adesione, di simpatia umana. Ben assecondato, ovviamente, dall’ottima recitazione di Luca Zingaretti, ma anche in questo caso non scevra da un pericolo di eccessiva identificazione col personaggio, che non rende agevole un suo utilizzo per ruoli diversi. Ma, detto questo, resta il limite, peraltro comune anche a tanti maestri in quella medesima forma popolare, delle ripetizioni, dei meccanismi alquanto logori, come non ho mai mancato di mettere in luce. E c’è anche di più, ho stroncato per esempio un tentativo di Camilleri di uscir fuori dal suo repertorio solito, come succede in “Tutto mio”, una vicenda volta a scavare nella privacy di una donna, fino a varcare i limiti del patologico. Però, nel complesso, egli resta il numero uno dei giallisti ora attivi in numerosa schiera presso di noi, con esiti che restano ragguardevoli, come per esempio nel suo recente “Il metodo Catalanotti”, ben condotto nella vicenda intricata e davvero ricca di una abile suspense e di un industrioso scioglimento. Senza contare che Camilleri è davvero maestro quando si allontana dalle rive, pur così a lui proficue, del filone poliziesco per calarsi invece a ricostruire qualche segmento della storia isolana. “La rivoluzione della luna” è un capolavoro, sia nel tentativo di riscattare il ruolo della donna anche nella politica, sia nel calarsi quasi per intero nell’esercizio del dialetto. Ma ora, a spingermi a questa pubblica lode, entra pure la visione ritardata della “Conversazione su Tiresia”, che se non sbaglio lo scrittore siciliano aveva pronunciato l’anno scorso nel teatro classico di Siracusa, e che giustamente è stata ridata dalla RAI la sera stessa della sua scomparsa. In quello spettacolo Camilleri compare assiso al centro della scena, dominandola con la sua presenza accattivante, bonaria, comunicativa al massimo, con una lenta pronuncia delle frasi, ma sempre condite con opportuni ammicchi ironici, anche a se stesso e alle sue attuali condizioni di quasi-cecità, il che gli ha consentito di trovare una colleganza spontanea con Tiresia, di cui ha ricordato con chiara perspicuità didattica i casi forniti dalla mitologia. Ma poi è passato a enumerare i vari momenti di risorgenza del suo mito nell’intera storia universale della letteratura, nel che ha dimostrato di essere stato davvero un avido consumatore di libri, di storie, di capolavori del passato. Mi hanno colpito soprattutto gli abili, pertinenti riferimenti all’”Orlando” di Virginia Woolf, nel nome di un personaggio che, proprio come la creatura del mito, cambia regolarmente il suo stato sessuale passando agilmente dal maschile al femminile. E poi il riferimento a un’opera semi-dimenticata di Apollinaire, “ Le mammelle di Tiresia”, con l’avvertenza che da lì prende nascita il fondamentale vocabolo di Surrealismo, di cui poi è stato pronto a impadronirsi Breton. Infine, il commovente riferimento a Ezra Pound e ai suoi “Cantos” nel quale caso un autore notoriamente vigile difensore della sinistra non ha avuto difficoltà a riconoscere la grandezza di quell’oppositore politico. Ed eccellente pure la ricostruzione del tramando da Pound a Eliot e alla sua “Waste land”, dove appunto Tiresia assume forse il maggiore protagonismo in tutta la vicenda della letteratura contemporanea. Insomma, una prestazione eccellente, commovente, precisa e incalzante, che ci fa rimpiangere il fatto che al suo autore non sia stato possibile recitare un altro dramma, consistente in una rilettura della sorte di Caino.