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Forgione, vicende efficaci di un immaturo

Ricevo e commento ben volentieri il romanzo di Alessio Forgione, Il nostro meglio, edito dalla Nave di Teseo. Non conosco i suoi due precedenti romanzi, indicati nel quarto di copertina, ma mi convince il carattere di questa prova che si pone per intero fuori dal main streamimperversante ai nostri giorni, anche se il titolo dato all’opera non mi convince per nulla, mi pare troppo [...]  CONTINUA A LEGGERE

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Inglese, un autore che tira calci

Ricevo e recensisco ben volentieri Stralunatidi Andrea Inglese, a cui vorrei rivolgere un unico rimprovero. Infatti adottare il termine di “stralunati” mi pare insufficiente, per queste prose, cui converrebbe assai meglio il titolo di “indemoniati”. come del resto è chiaro dal brano riportato in copertina, dove l’autore dichiara il suo istinto irrefrenabile di tirare calci, cioè [...]  CONTINUA A LEGGERE

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Morpurgo, un romanzo a due facce

Siamo in un momento curioso, caratterizzato da una crisi del cartaceo a stampa, che vede infatti le edicole dei giornali chiudere per mancanza di clientela, mentre esce una selva di opere narrative, che giungono a lambire perfino uno come me, fuori dai giochi che contano. Tuttavia rispetto il dovere di dare riscontro delle opere ricevute, tra queste Il passo falsodi Marina Morpurgo, un’autrice [...]  CONTINUA A LEGGERE

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Troppa carne al fuoco nella Bazzi

Ho ricevuto per un caso di omonimia il romanzo di Agata Bazzi,Ci protegge la luna, inviatomi addirittura dal grande  Mondadori, In realtà io avevo recensito nel mio blog molto favorevolmente un altro Bazzi, Jonathan, autore di Febbre,ma ben venga pure la prova della sua omonima, di cui a dire il vero prima di ricevere questa sua opera nulla sapevo, ma mi ritengo in obbligo di [...]  CONTINUA A LEGGERE

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Ci protegge la luna

Ho ricevuto per un caso di omonimia il romanzo di Agata Bazzi, Ci protegge la luna, inviatomi addirittura dal grande Mondadori. In realtà io avevo recensito nel mio blog molto favorevolmente un altro Bazzi, Jonathan, autore di Febbre, ma ben venga pure la prova della sua omonima, di cui a dire il vero prima di ricevere questa sua opera nulla sapevo, ma mi ritengo in obbligo di [...]  CONTINUA A LEGGERE

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De Giovanni non sa rinnovarsi

Confesso che, leggendo l’ultimo prodotto di Maurizio De Giovanni, L’equazione del cuore, mi si era aperto un filo di speranza, forse uno dei giallisti più reputati e di successo una volta tanto aveva deciso di mettere da parte i suoi soliti investigatori, o anche la squadra tumultuosa dei Bastardi di Pizzofalcone, per narrarci una vicenda più solitaria e di pura rilevanza psicologica. Così infatti si presenta il protagonista di questo romanzo, Massimo Del Gaudio, con cognome del tutto improprio, infatti nella sua esistenza non pare esserci nulla di gaudioso, è un professore di matematica puntuale, abitudinario nei gesti, ancora inconsolabile per la perdita della moglie Maddalena, pur avvenuta tanti anni fa, il che però forse gli impedisce di stringere nodi di sincero affetto sia con la figlia Cristina sia col figlio di costei, il piccolo Checco, che però vorrebbe invece avere il pieno appoggio del nonno. Un’esistenza così regolare, ma anche vuota è scossa a un tratto dalla tragedia, Infatti sia la figlia sia il genere, Luca Petrilli, dal protagonista non molto amato, come del resto è quasi nella tradizione, restano vittime di un incidente d’auto, vanno a finire con la loro vettura dritti dritti contro un ostacolo, morendo sul colpo. Si salva a stento Checco, che se ne stava nel sedile di dietro, ma è in pessima condizione, con fratture multiple e soprattutto offese alla testa, il che obbliga l’assistenza medica a mantenerlo in coma terapeutico, paventando l’ora del risveglio, in cui il piccolo potrebbe accusare lesioni irrimediabili al cervello. Il Del Gaudio è prima di tutto sconcertato da questo dramma, che lo sbalza fuori dalla sua vita così ben regolata nei tempi e nel ritmo, ma essendo l’ultimo parente rimasto al povero ragazzo è costretto a sostare nella clinica e a cercare di rivolgergli un po’ di quell’affetto che in precedenza gli ha sempre negato. Nella veglia viene a scoprire cose sorprendenti, che il genero, da lui disprezzato, era però un genio negli affari, e aveva costituito un impero capace di sostenere da solo tutta quella piccola comunità ove il dramma si svolge. Se Checco ce la fa a sopravvivere, l’erede sarà lui, ma diversamente l’austero scienziato sarebbe sottratto per sempre alla quiete dei suoi studi dovendo farsi carico di quella impensata cospicua eredità che gli pioverebbe addosso. Naturalmente quando un giallista mette in scena un incidente d’auto, cosa che accade molto spesso, essendo un’arma eccellente per ingarbugliare le trame, in genere “gatta ci cova”, come insinua un bravo ispettore, anche se di modesta apparenza. E dunque ci siamo, buon sangue non mente, il giallista che cova in De Giovanni fa la sua riapparizione, ma in una versione insolita. Infatti in genere un falso incidente d’auto è tramato da qualche “cattivo” che vuole mandare a quel paese un nemico, un avversario, qualcuno che gli contrasta il passo. Qui invece passo passo si scoprirà con meraviglia è stato proprio il genero, l’onnipotente Petrini, il padrone del paese, a procurarsi la morte andando a sbattere volontariamente contro l’ostacolo. Naturalmente ho scrupolo verso un eventuale lettore, quindi non starò a svelare la ragione di quel gesto impensato. Dovrò pur dire che comunque, anche quando arriva una motivazione, questa appare inverosimile, tirata per i capelli, e dunque De Giovanni spreca quel poco di attendibilità psicologica che pure aveva dimostrato nel tratteggiare il carattere di Del Gaudio. Niente da fare, le dure esigenze del giallo obbligano sempre a deragliare, a imbrogliare le carte, a barare al gioco. Qui, a dire il vero, il nostro autore lascia la trama in sospeso, non ci dice se e come il piccolo Checco uscirà dal coma.
Maurizio De Giovanni, L’equazione del cuor, Mondadori, pp. 242, euro 19.

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una intensa biografia di Degas, tra il vero e il romanzesco

In genere mi tengo lontano dalle biografie romanzate di artisti di successo, che in genere si limitano a riciclare in forme facili certe nozioni di pubblico dominio, ma questo non è il caso di un’opera di cui ho ricevuto omaggio, Madame Degas, di autore olandese, Arthur Japin, nato nel 1956, di cui non so proprio nulla, ma devo riconoscere che è entrato a fondo nella conoscenza del grande Degas, mescolando abilmente dati reali, che ci fanno vivere quasi accanto al grande artista in alcune fasi della sua esistenza, e invece dati inventati, di fantasia, di cui però una nota finale ci mette opportunamente sull’avviso. A cominciare proprio dal grande amore che domina l’intero libro, intrattenuto da Edgar per una cognata di nome Estelle, che gli era stata soffiata da un fratello minore ma molto più intraprendente di lui, René, e dunque si tratta di un amore impotente, nutrito in segreto, anche se forse avvertito e contraccambiato dalla persona interessata, che capiva bene la differenza di portata spirituale tra il grande artista e il giovanotto di modi bruschi che aveva sposato, pronto a tradirla in tutti i modi, Forse il nostro Japin nel concepire una simile trama si è ispirato all’amore segreto che il personaggio principale, il Frédéric Moreau dell’Education sentimentale di Flaubert ha pure lui nutrito per una donna, sempre perduta, quasi da ricordare il difficile amore tra il Petrarca e Laura. Japin affonda le sue doti di attento osservatore su due fasi nella vita di Degas, partendo subito da quella terminale, quando il pittore è ormai vecchio e quasi cieco. Sono di grande efficacia le pagine in cui ci viene narrato come Degas, ormai impedito nell’esercizio della sua arte, si sa muove nelle stanze dell’appartamento o nei vicoli di quartiere che gli è familiare. E’ dunque un grande trauma per lui, quando per la demolizione di quella casa è costretto a cambiare residenza. Non importa che il nuovo appartamento, in boulevad de Clichy, sia più ampio e confortevole, ma il quasi cieco vi deve riacquistare la dura capacità di sapersi muovere, di parare gli ostacoli che ora non conosce più. E soprattutto si impone la necessità di uno sgombero. Il vecchio appartamento è colmo di lettere, documenti, mille cianfrusaglie in cui però è depositato il senso di un’intera esistenza. Il mercante Durand-Ruel vigila senza dubbio sul suo artista, gallina dalle uova d’oro, procurandogli quella che oggi chiameremmo una badante per aiutarlo nell’impresa del trasloco. Da qui un salto indietro nel tempo, al periodo in cui Degas è andato a raggiungere i molti esponenti della sua famiglia che a New Orleans avevano creato una ditta di successo sfruttando il cotone, materia strategica negli States del Sud. Anche questa è una scelta opportuna di Japin, non propinarci l’intera vita degasiana, ma mettere una sorta di lente d’ingrandimento solo su certi periodi, per esempio, dando un dolore a noi italiani, infatti non troviamo traccia dei numerosi soggiorni degasiani in Italia, tra Napoli e Firenze, per coltivare la parentela con la famiglia Bellelli. Sono visti invece molto da vicino appunto i mesi spesi in un lungo soggiorno a New Orleans presso il ramo della famiglia Degas-Musson, con dipinti famosi dedicati al loro ufficio, omaggio straordinario dell’artista a una scena di normale vita moderna, di ditta di affari nel pieno dell’attività giornaliera. E qui si consuma nel modo più intenso il dramma dell’amore impossibile con Estelle, Madame Degas, che però lo è del fratello più intraprendente, non tanto però da non trascinare l’intero ramo della famiglia emigrata negli States alla rovina. Degas è posto al riparo dall’autonomia del suo mestiere d’artista, con i relativi successi e remunerazioni. Non senza che il nostro Japin manchi di lanciare qualche occhiata penetrante sulle fasi maggiori e più note dell’arte di Edgar, per esempio riuscendo a distruggere il mito delle ballerine, che non sono giovani nobili ed elette, ma misere figlie del proletariato che forse le madri mettono in mostra per solleticare i bassi istinti degli spettatori, cioè in sostanza per fare delle danzatrici, in apparenza nobili e leggere come libellule, delle candidate alla prostituzione. Del resto un doloroso episodio di quest no genere era avvenuto nel paradiso terrestre di New Orleans, dove il solito intemperante René aveva ingravidato una dipendente, che aveva messo alla luce una bambina, trascinandola con sé in un tentativo di suicidio per annegamento, tenendola abbracciata mentre si tuffava in acqua senza ritorno, Ma la piccola si era salvata, e qui si inserisce una nota romanzesca, ora questa creatura, che porta il nome di Joie, torna letteralmente a galla, ed è proprio lei che funge da badante dell’invecchiato, cieco, quasi cadaverico Edgar. Come già detto le pagine dedicate al declino e alla miseria corporale del grand’’uomo sono davvero efficaci, anche se l’esistenza di una badante con tanto passato è una pura invenzione romanzesca, il che del resto vale ancor prima per Estelle. Nel romanzo, anche lei conosce la prova estrema di perdere la vista e premuore all’amore non dichiarato dell’intera sua vita, mentre una nota finale ci libera da questa angoscia precisando che Estelle non era diventata affatto cieca ed era morta dopo il pittore. Ma dobbiamo ammettere che gli inserti romanzeschi apportati da Japin entrano bene nella trama dei fatti reali, il lettore non ne è turbato, anzi, li deve apprezzare, proprio nella misura che scrivere un romanzo su un artista è diverso che darcene una puntuale biografia.
Arthur Japin, Madame Degas, Guanda, pp. 301, euro 18.60.

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Tutto vero, nel nuovo romanzo di Veronica

Finalmente un’opera che balza fuori dal main stream da me lamentato più volte, negli ultimi tempi. Non la solita storia della ragazzina con tante disgrazie, ma anche con l’opportunità di accedere al successo che consentono i media, le comparse televisive. Si ratta di Veronica Raimo e del suo Niente di vero, a cui semmai posso rimproverare il titolo, dato che al contrario le testimonianze di cui il romanzo è farcito sono del tutto vere, anche se volutamente contradditorie tra loro. Del resto avevo lodato a suo tempo almeno due su tre apparizioni della Raimo, l’iniziale Dolore secondo Matteo e Tutte le feste di domani, per cui avevo addirittura osato pronunciare un riferimento a un capolavoro assoluto come la flaubertiana Madame Bovary. Qui intanto, in omaggio a un compito di testimoniare il vero, la protagonista è una donna, che fa l’altro procede molto alla scoperta, dichiarando di chiamarsi Veronica, anche se in famiglia il nome viene abbreviato in Verika. E di avere un fratello, come succede proprio a lei, accompagnata o avversata nella carriera dal più anziano di soli quattro anni Christian, cui ho dedicato una recensione per un romanzo molto meno drammatico, anzi, svolto nel segno dell’umorismo, come dice il titolo stesso, Tranquillo prof. Del resto l’umorismo entra anche nelle testimonianze o nel diario privato della sorella, però è un umorismo amaro, attento a contrastare ogni aspetto che possa costituire una nota positiva. Tutto qui è preso per traverso, reagendo a una madre fin troppo apprensiva e manierata, a un padre che si rifugia ad ogni passo nella frase stereotipata “siamo arrivati al paradosso”, quando si trova davanti un caso più grande di lui dal quale non sa bene come uscire. Alla base di tutto ci sono le confidenze della protagonista, sublimi quando parla del sesso, del salsicciotto che ha scoperto nei maschi, da cui è a un tempo affascinata e inorridita. L’accompagna una specie di innocenza o candore o ingenuità che serve appunto per dare più rilievo alle marachelle o alle nefandezze che attorno a lei compiono gli adulti, si tratti di parenti o di amanti occasionali, quelli che passo passo la portano a sperimentare anche la procreazione, ma con la connessa inevitabile decisione di sbarazzarsi di quel frutto inopinato, il che dà modo alla scrittrice di narrate per traverso, e con tanto umorismo nero, come avvengono gli aborti. A contestare ulteriormente quel titolo improprio, niente di vero, c’è pure il rapporto col fratello Christian, nominato allo scoperto, senza l’ ipocrisia di nascondere sotto nome pretestuoso qualche personaggio influente sulla propria vita. Anche i rapporti con Christian sono tutti improntati a un saliscendi, di rivalità, tensioni, rappacificazioni improvvise. Come del resto è tutto il romanzo, una trama di umori atrabiliari pronti a mutare a ogni passo e a trasformarsi nei loro contrari. Forse per questo verso il titolo dato alla vicenda può essere preso sul serio, ma a patto di alleggerire il sostantivo, il “vero” qui è una fata morgana sfuggente, un filo esile sempre pronto a interrompersi o ad avvolgersi su se stesso per negare ogni evidenza. Tutto in questa narrazione è labile e fuggente, il che ne costituisce il fascino e l’aspetto positivo.
Veronica Raimo, Niente di vero, Einaudi, pp. 161, euro 18.

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Manzini, far parlare davvero le ossa

Leggo che questa settimana, in testa alla graduatoria dei testi narrativi di autore italiano, compare Antonio Manzini con Le ossa parlano. E la cosa è senza dubbio un vantaggio, rispetto al vacuo e inconsistente prodotto di Volo che invece dominava le graduatorie della settimana scorsa. Non voglio eccedere in lodi, Rocco Schiavone appartiene del tutto alla famiglia dei Montalbano e simili, di cui ci offre varianti non particolarmente significative, ma nell’insieme compare una serie di dati apprezzabili, a cominciare proprio dal ritrovamento di quel misero scheletro di adolescente strangolato qualche anno fa e sepolto in una fossa scavata nel terreno. Ingegnoso è il ricorso a un botanico, che può dare una data al delitto, e al conseguente interramento della vittima, risalendo al tempo che ci hanno messo i vegetali a ricrescere attorno al cadavere. E apprezzabile comunque è la nota vegetale che caratterizza il crimine, per la comparsa di un’orchidea sepolta assieme al morto. Da qui parte l’indagine di Schiavone, che beninteso pensa subito a un caso di pedofilia, e dunque comincia ricercare in archivio i casi di noti pedofili emersi negli anni passati. Nel condurre queste indagini Schiavone può contare su una squadra di collaboratori che in tutto e per tutto, forse su un gradino più basso, possono ricordare la squadra dei Bastardi di Pizzofalcone. Naturalmente c’è il solito superiore insopportabile che fa di tutto per intralciare le indagini del vice-questore (come puntigliosamente l’eroe di queste imprese fa notare agli interlocutori, che pretenderebbero di degradarlo al suolo di semplice ispettore). E c’è un passato, con vittime, tra cui una moglie, e amori di passaggio o più sostanziosi. Ma Schiavone si riscatta non certo a livello di vicende umane, di amori, tradimenti, passi falsi, bensì di animali, per il suo amore viscerale per una cagna di cui assiste con infinito amore al parto, anche se di soli tre cuccioli, prontamente assegnati a compagni di ventura. E interessanti sono anche le varie maniere secondo cui questo poliziotto d’assalto soddisfa i suoi appetiti, in modi dozzinali, attingendo a uno smunto frigorifero, o accontentandosi di pasti arrangiati in mille modi. Frattanto si sciorina la schiera dei sospetti, tra cui uno si è dato addirittura la morte, e i miasmi pestiferi che emergono dal suo abituro sono, al solito, una di quelle pennellate efficaci che l’autore e il suo eroe riescono a cogliere di passaggio. Poi, beninteso, come vuole un giallo che si rispetti, c’è una serie di rimbalzi da un sospettato all’altro, infine la roulette, non dirò certo in quale casella va a fermarsi, ma mi limiterò a dire che viene rispettata la norma secondo cui conviene sempre cercare vicino, come oggi avviene nei vari femminicidi. Del resto, chi poteva godere del privilegio e del senso di sicurezza da indurre un ragazzino a seguirlo sulla via della perdizione? Insomma, così si dipana questa vicenda, con punti bassi per tanti aspetti stereotipati già incontrati in tante trame similari, e invece con qualche picco in su, capace davvero di suscitare il nostro interesse,
Antonio Manzini, Le ossa parlano, Sellerio, pp.397, euro 15.

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farfalle

Siamo in presenza di un desolante main stream in cui incontriamo tanti narratori che se la cavano passabilmente, quasi senza la possibilità di stabilire tra loro delle gerarchie ben scandite. E’ il caso di Paolo Mascheri, di cui non sapevo nulla prima che mi mandasse il suo romanzo, L’albero delle farfalle, che pare essere la sua terza fatica. Eppure non ci sono ragioni per dirne male, non riesco perfino a distanziarlo da un autore di sommo prestigio quale il francese Houllebeck. Vediamo come i conti tornino. Al centro di tutto c’è una brava massaia, di nome Costanza, tutta protesa a fare il bene della famiglia. Se si tratta del figlio Riccardo, lo spinge a fare carriera, ma accettando anche di buon grado che si arresti al livello non esaltante di medico di famiglia. E beninteso c’è pure da curare la nipotina Elena, nonché un arcigno marito Roberto, al solito, come succede ai maschi, troppo preso dai suoi interessi pratici per curare davvero i rapporti familiari. C’è pure una nuora, portatrice dell’angoscioso problema se convincere il marito a un secondo parto, oppure no. A turbare questo tranquillo quadro familiare sta in agguato la malattia, che si impadronisce del ramo debole, meno difeso, ma nello stesso tempo più generoso e protettivo verso i parenti, cioè Costanza, che entra in sofferenza per i morsi di un cancro che non le dà tregua. Ma dove non succede qualcosa del genere? Prendendo ancora come riferimento il recente Affondare di Houellebecq, l’unica differenza, non di grande rilevanza, è che nel romanzo del francese il cancro colpisce colui che si racconta, cioè il protagonista stesso della vicenda, ma appunto non fa molta differenza, visto il diario assiduo che il figlio stesso, data la sua competenza medica, riesce a stendere, fino all’inevitabile scomparsa della protagonista numero uno. E beninteso non manca il tratto sensibile della memoria, dei legami coi tempi felici di un passato, qui espressi proprio da quell’albero che si copriva di farfalle, momento di pausa, quasi paradiso terrestre in mezzo ai gusti che il male di vivere produce tutto attorno. Non è un granché, ma questo al momento passa il convento, a meno di non evocare gli spettri del giallo e della sua casistica, tanto per dare un po’ di tensione a vicende altrimenti troppo tranquille e prevedibili.
Paolo Mascheri. L’albero delle farfalle, peQuod, pp. 163, euro 16.

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