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Tiziano e l’immagine delle donne

Come ho detto, martedì scorso ero andato al Palazzo Reale per la mostra di Sorolla, contando anche di visitare quella di Tiziano e l’immagine delle donne, ma un ritardo di treno, e gli appuntamenti pomeridiani, mi hanno permesso solo di gettare uno sguardo di fretta su Sorolla, lasciando perdere l’altra esposizione molto più considerata dagli organizzatori, e già provvista di lunga [...]  CONTINUA A LEGGERE

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Sorolla, anticipatore nell’iperrealismo

Ho molto amato la pittura di Sorolla, ma sentendo sempre la necessità di collegarla ad altri tre artisti, a lui vicini negli anni e soprattutto nello stile. Lui, 1863-1923. Gli altri, lo svedese Anders Zorn, 1860-1920, e i meno noti dalle nostre parti, il norvegese Christian Krohg, 1852-1925, e il danese Peter Severin Kroyer, 1851-1909. Era una curiosa alleanza tra il Nord e il Sud Europa, e dunque dovrebbe essere proprio l’EU a farsi carico di esporli tutti assieme, essendo uniti da una sorta di super-impressionismo, o iper-realismo avanti lettera, a sfida della fotografia. Ci avevo provato io stesso, proponendo il quartetto al romano Chiostro del Bramante, molto poco convinto della cosa, tanto che mi pose condizioni capestro, un tempo limitato per realizzare il progetto e tutte a carico mio le spese dei viaggi per cercare i prestiti. E così mi feci nel giro di pochi giorni dei bei viaggi, in Svezia alla casa natale di Zorn, a Copenaghen, a Oslo, a Madrid. Fu un fallimento, solo dal direttore del museo Zorn, perfetto italofono, ottenni una certa considerazione, gli altri mi snobbarono del tutto, una parente di Sorolla lasciò anche lei cadere le mie avances, lusingata dall’annuncio che all’avo era promessa una mostra al Prado. Tornai quindi con la coda tra le gambe a confessare il fallimento a quelli del Chiostro del Bramante, forse dal canto loro sollevati dal rischio di dover sostenere una mostra in cui non credevano. Ora non è che neppure Milano celebri l’artista valenciano in pompa magna, infatti lo colloca nelle stanze più lontane e disagiate al primo piano del Palazzo Reale, riservando lo spazio d’onore a un grande classico come Tiziano, oltretutto presentato attraverso il tema femminile, e già si allungano le code dei visitatori, mentre pochi e incerti sono quelli per l’artista spagnolo, che però ugualmente sciorina le vesti candide, come lenzuoli, come vele al vento, destinati ad avvolgere le sue donne, non legate al cosiddetto eterno femminino bensì a solidi caratteri etnici. Meglio ancora quando quelle figure, robuste, atletiche, si tuffano in acqua, magari quasi a riva, come se il mare fosse una provvida tinozza per dare risalto alle forme, come se fossero dei balenotteri quasi spiaggiati, ma capaci comunque di mostrare solide carni ben abbronzate. Quelle immagini ci possono ricordare anche un nostro artista, di pochi anni più anziano, Francesco Paolo Michetti, che però, nell’affrontare il medesimo tema di bagni di donne sui bordi del mare, quasi diffidando del mezzo pittorico, aveva preferito valersi della fotografia, e quindi, in definitiva, fornendo prestazioni di tono minore. Mentre Sorolla, al pari del resto dei suoi lontani compagni di ventura, è sempre forte, plastico, quasi scultoreo, se non ci fosse pur sempre l’immersione nella calda luce mediterranea e nell’ acqua di mare a scorrere sulle epidermidi e ad ammorbidirle in misura conveniente, ricavandone magnifici riflessi di tinte. Diciamo pure che per tanta abilità egli sfiorava il limite del virtuosismo, cosa che però gli diede un successo nei due mondi, convinse per qualche tempo anche il pubblico statunitense. Mantengo un filo di speranza che qualcuno voglia intraprendere il pieno riconoscimento e la conseguente valorizzazione non solo di Sorolla, ma degli altri tre che in quegli anni gli fecero degna corona, resistendo a tutte le seduzioni delle avanguardie. E dunque, se si vuole, è pur strano l’ omaggio entusiastico che gli rende un fedele storico dello sperimentalismo novecentesco come il sottocsritto
Joaquìn Sorolla, a cura di Micol Forti e di Consuelo Luca de Tena, Milano, Palazzo Reale, fino al 26 giugno.

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Louise Nevelson, magistrale anche nei collage

Giò Marconi, nel suo spazio anch’esso in Via Tadino, ma distinto da quello del padre, sta svolgendo l’utile impresa di riproporre certi artisti già appartenuti alla squadra del padre Giorgio, ma al momento da lui abbandonati, per sue ragioni di salute. Così è stato nel caso di Emilio Tadini, e in questa rubrica io ho dato atto dell’opportunità dell’operazione. Ora il fatto si ripete a proposito di Louise Nevelson, uno dei pochi artisti stranieri di cui si poteva gloriare l’équipe di Giorgio Marconi, anche se il figlio si limita a proporre l’artista solo in maniera minore, con una serie di collages, ma ugualmente significativi. Non ci sono quindi quei maestosi blocchi lignei con cui la Nevelson, 1899-1988, in realtà di nascita ucraina con un cognome impossibile, poi spianato nel ben più accessibile con cui ha raggiunto la notorietà in forza del matrimonio con uno statunitense, finito con un divorzio proprio alle soglie del momento in cui la Nevelson, come lei stessa decise di farsi chiamare, era alle soglie della celebrità. E appunto Giorgio Marconi fu pronto a metterla sotto contratto, mentre anche la Biennale di Venezia la celebrava, con quel suo stile che si poneva all’incrocio di varie piste. C’era un minimalismo per quei suoi blocchi squadrati, massicci, ma anche una derivazione Pop, in quanto quei complessi, in genere lignei, erano fatti con materiali presi dalla strada, dall’attualità. Ma nello stesso tempo c’era pure un tocco di citazionismo, dato che quei materiali erano i cascami di case della belle époque, erette con un gusto Art Déco, con ricordi del colonialismo soprattutto di stampo relativo agli States del Sud. Sentivo dire che a New York era facile capire dove la Nevelson aveva lo studio, perché si vedevano file di ragazzi che le portavano quei trofei, quei resti di dimore di alto bordo, usciti fuori da qualche demolizione, o addirittura estratti, smontati per ricavarne un bottino, che l’artista compensava con laute mance. Ma non ho menzionato ancora il dato più rilevante che dava all’artista una posizione del tutto particolare, pur nella navigazione tra quei vari stili menzionati sopra. Era la tinteggiatura monocroma che veniva assegnata a quei blocchi ingegnosi, con tre colori, o forse meglio dirli non-colori, portatori di un forte peso simbolico. C’era un nero funereo, in alternativa un bianco, che dopotutto per certe culture è anch’esso indicatore di lutto e di morte, e poi ancora una doratura, che era il segno di una nobiltà, in definitiva già insita nei materiali assemblati, ma che in tal modo veniva portata a un massimo di evidenza e di splendore. Naturalmente i collages ora in mostra da Giò Marconi rendono di questi superbi caratteri una versione ridotta. Dominano i legni, come delle impellicciature scorticate dai mobili, e dunque prevale il colore ocra austero delle cortecce, ma nell’occasione l’artista si spinge a sperimentare una tavolozza di colori più accesi e variati, uscendo dalle sue scelte ternarie, e compare perfino qualche elemento circolare, che mi sembra essere stato del tutto estraneo alle sue scelte finali, affidate a una corretta manifestazione di orizzontali e verticali. Insomma, come è nella natura delle fasi grafiche, l’artista esce dalla fissità delle sue soluzioni maggiori, tenta e sperimenta in modi più mobili, nel che è il fascino della mostra, capace in tal modo di sfuggire al rischio di venire giudicata come una prestazione minore.
Out of Order, i collages di Louise Nevelson, Milano, Galleria Giò Marconi, fino al 29 luglio.

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Grandezza incontrastata di Bacon

Il mio solito mentore Artribune annuncia una mostra di Francis Bacon a Londra, Royal Academy. Certo non mi sarà possibile andare a visitarla per ragioni economiche e soprattutto fisiche, ma questo non mi può esimere dal proclamare che l’artista inglese è il maggior pittore internazionale del secondo Novecento, l’ho detto fin dalle sue prime apparizione, come testimonia un mio fervente saggio nel primo dei due volumi di Informale oggetto comportamento, quando peraltro Bacon sembrava muoversi nel solco della fotografia, già interessato però ad andare a cogliere momenti di acme, quando il suo soggetto lancia un urlo, o comunque è preso da una forte passione o emozione, per lo più di terrore. In seguito lui si è preoccupato soprattutto di apprestare una sede adatta per questo suo teatro anatomico di nuovo conio, e già qui sta un forte distacco da altri pretesi realisti che una certa opinione pubblica conformista gli vorrebbe accostare o addirittura contrapporre. Penso al caso clamoroso di Lucien Freud, valido come campione per misurare le enormi differenze tra i due. Freud ambienta le sue figure su sfondi, interni, vedute ambientali definiti con ogni cura, che in fondo fanno tutt’uno col personaggio posto in campo. Bacon invece nel corso degli anni ha posto le sue scene in ambienti che per la loro nettezza e pulizia vogliono contrastare nel modo più assoluto agli orrori che sono chiamati ad ospitare. E dunque, si tratta di stanze quasi d’ufficio, con le pareti tinte con colori irreprensibili, anche nel loro manifesto cattivo gusto, che sfida le tinte ugualmente fredde e artificiali di un Peter Halley o di un John Armleder. Ma questi artisti si fermano a un livello rigorosamente aniconico, contenti dell’omaggio che rendono a una scala cromatica di voluto pessimo gusto, di sfida aperta a tutti i valori convenzionali dell’armonizzare le tinte. Tanta assolutezza cromatica, nel caso di Bacon, è solo una premessa, per ospitare gli svolgimenti crudeli che egli impone al corpo umano, obbligandolo a discendere la scala della creazione, a ritrovare uno stato primordiale di embrione, di insaccato solo ai primi passo di un processo di gestazione. Ma intanto, anche in uno stato così provvisorio, dalle bocche di questi copri affetti da ogni possibile deformazione e anomalia, continua a sgorgare quell’urlo di furore che magari agli inizi l’artista manifestava in modi più analitici e aneddotici. Ora ha disceso a passo di corsa i gradini dello sviluppo genetico, e questi mozziconi di corpi si mettono in bella mostra, o meglio, evidenziano i loro orrori ponendosi in bilico su trespoli o altro mobilio precario, come fossero belve costrette da un implacabile domatore a salire su qualche palco, per porre in piena evidenza le loro deformazioni, che del resto sono il seguito di violenti processi degenerativi, di rapide discese nel codice genetico, tanto per evidenziare tutti gli aspetti deficitari di cui può essere gravata la nostra povera condizione umana. Che del resto qui, come dice il titolo stesso della mostra, Man and Beast, viene fusa con qualche presenza animale, ma nel nome di un’unica e solidale discesa lungo la scala degli orrori e della degenerazione. Pare di intravedere la mole di un toro, che fa sistema unico con le misere membra umane, in una tauromachia attenta però a evitare gli aspetti compiaciuti e aneddotici che in genere si accompagnano a esibizioni di questo tipo, si pensi per esempio ai divertiti e troppo abili esercizi di Picasso rivolti in questo senso. Qui invece pare che all’artista non basti cimentarsi nella sola regressione dell’essere umano, ma la voglia fondere con un simile processo che si abbatte anche sulla “bestia”, in un’unica solidarietà, ma tutta protesa verso il basso, quasi un pretesto per raddoppiare il contenuto provocatorio di questi carnai, offerti a noi spettatori che assistiamo allibiti, muti testimoni di come può scendere in basso la nostra comune esistenza, ma attrattati dal morboso fascino che è connesso a ogni scena di orrore, di degradazione, di comune avvolgimento nella barbarie e turpitudine del vivere.
Francis Bacon, Man and Beast, Londra, Royal Academy, fino al 17 aprile.

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Viel, un felice ritorno alle origini

Cesare Viel mi invita a occuparmi della sua mostra milanese Condividere frasi in un campo allargato. alla Galleria Milano, cosa che faccio ben volentieri sfruttando il materiale che lui stesso mi ha mandato. Viel è un caso interessante che rubricherei all’insegna di una formula hegeliana, anche se non amo affatto quel solenne filosofo caro invece a tanti. Ma mi va molto bene la formula della sintesi, che applico volentieri al caso di Cesare. Prima c’è stata la “tesi”, cioè il rifiuto della pittura e di tutti i suoi allettamenti, provocato dal severo clima del ’68 e dintorni, caratterizzato per esempio dal ricorso alle scritture, proprio per sostituire le rifiutate espressioni pittoriche, ed ecco così apparire i vari Kosuth, Weiner, Barry, che però praticavano le loro sentenze linguistiche in clima di assoluta austerità, in bianco e nero, o con la luce fredda dei neon. Poi c’è stata l’antitesi, cioè la reazione che ha portato a civettare col passato, attuando anche un cauto ritorno al colore e al pittoricismo. Tra i due estremi è venuta fuori appunto una sintesi di sapore hegeliano, di cui ottima dimostrazione è stato proprio il nostro Cesare, con i suoi foglietti recanti qualche scritta in stampatello, comunque manuale, ma su fondi colorati, e poi anche questi foglietti erano disposti in un artistico disordine, come se una mano li avesse fatti cadere liberamente, cosa che certo doveva innervosire i troppo corretti concettuali della specie di Kosuth. Mi pare di capire che anche in questa sua attuale esposizione ci sono le frasi, chieste in prestito ad altri e quindi testimonianze di una qualche privacy, forse schierate, nella galleria, in formazioni più ordinate del solito. Ma il tutto è accompagnato da disegni, ,in cui in punta di penna o di matita egli disegna come delle scogliere, ma registrate in un universo alieno, in un mondo di sogni, o in qualche astro raggiunto da un’avventurosa esplorazione spaziale. Quei massi, leggeri, fatti di spuma, di sostanza lunare, si incastrano gli uni negli altri, e ne viene uno spettacolo di nuova pittura, o di nuovo disegno, quasi l’alba di un giorno inedito, o proprio un magico portato della sintesi che già invocavo nei casi precedenti. Credo che sia davvero l’ora di questa nuova pittura, di cui perfino io, nei miei esercizi compiuti con un ritardo di mezzo secolo, in definitiva sono ora un testimone. Basta col concettuale, e con tutti i prodotti telematici. Ora, che forse siamo fuori dal covid, torniamo a nutrirci dei frutti autentici e rigenerativi di una qualche modalità pittorica, che non so bene dove porterà, ma certo è un sentiero che vale la pena di percorrere, e quindi approvo questi saggi iniziali e felici di Viel.
Condividere frasi in campo allargato, Milano, Galleria Milano, fino al 12 marzo.

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Eleganza di Emilio Fadini

Mi sembra molto giusto che Gio’ Marconi ora subentri al padre Giorgio, impedito non so bene da quale infermità, ereditando i grandi nomi che avevano fatto la grandezza della casa paterna, lo Studio Marconi, tra cui un ‘intera squadra di Pop Artisti autonomi, di spirito europeo, al seguito delle proposte iniziali venute dall’Inghilterra, con Hamilton ai primi posti. E una decisa lontananza dagli esiti romani della Scuola di Piazza del Popolo, se si eccettua il numero uno di quella squadra, Schifano, che Marconi ha sempre esposto con molta cura. Tra questi Pop “all’inglese” potremo citare Valerio Adami, ma soprattutto Emilio Tadini, che del resto di Marconi padre era un influencer, un ispiratore, per il suo rango di squisito intellettuale, fra l’altro capace anche di fornire esiti letterari destinati a divenire via via più importanti, al punto che in una mia recente pubblicazione dedicata proprio alla narrativa del nostro secondo Novecento sono giunto ad accreditare a Tadini una forza non indegna del grande Céline. Ma come artista, negli anni Settanta, Tadini si distingueva per un segno sottile, quasi disimpegnato, di un protagonista capace di muoversi con scioltezza tra vari ostacoli, scavalcandoli con agili mosse. Le sue figure si distinguevano per l’eleganza degli abbigliamenti, con certi grigliati che valevano a distinguerne i profili, a renderli leggeri, efficaci, pronti a infilarsi nelle varie occasioni di un elegante vivere mondano, sapendo molto bene mantenere le distanze. Questo suo procedere con sagome sciolte, disimpegnate, lo distingueva dal compagno di squadra Adami, che invece ha sempre infittito il suo discorso, fornendo una specie di pavimentazione continua e quasi soffocante nell’ordito. Nella squadra c’era anche Enrico Baj, forse il più lontano da moduli di Pop Art, o quanto meno questa in lui assumeva volti barbarici, da spaventapasseri, da figure in maschera, volutamente grevi nel loro proporsi. E c’era anche Lucio Del Pezzo, che dalla Napoli originaria si era portato dietro un bottino di carabattole, dando loro un ordine, un carattere d rivisitazione di forme nobili del passato. Insomma, una situazione variegata, ricca di soluzioni alternative rispetto agli insegnamenti della Pop Art in stile newyorkese, cui invece si attenevano di preferenza i Romani. Questa libertà e varietà di conduzione tipica di Tadini e degli altri milanesi di casa Marconi trovava riscontri anche nella Pop di carattere torinese, con la quaterna di Gilardi, Nespolo, Mondino e infine Pistoletto, l’unico capace di districarsi da quegli esiti e di veleggiare libero verso l’Arte povera e oltre. Ma tornando a Tadini, bisogna riconoscere che egli sapeva muoversi con classe e disinvoltura estreme.

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tuffi costruttore-decostruttore

E’ molto giusto che il MAMbo dedichi una rassegna a Italo Zuffi, una delle più solide presenze nella Felsina, non diremo pictrix, dato che nulla è più lontano da lui quanto la pittura. Zuffi è un solido costruttore, ma alleato anche al suo opposto, al decostruire, visti come i due lati di una stessa operazione. E dunque per un verso egli schiera degli elementi da impresa edilizia, mattoni traforati, contenitori, vasche, che a loro volta contengono pezzi minori, come una nave potrebbe portare con sé la scialuppa di salvataggio. Talora questi elementi solidi si disfano quasi sotto il nostro sguardo, si aprono, danno luogo a varianti, a schegge impazzite che si distribuiscono nello spazio. E anche i colori contribuiscono a questa parata edilizia sono le tinte sobrie proprie dei mattoni, riposte sul grigio, su una sinfonia di tinte neutre. A meno che invece non adottino qualche azzurro squillante, come succede nei meccani quando una colorazione vistosa vuole aiutare proprio nel disporre i vari pezzi richiamandoli tra di loro e invitandoli a fare sinfonia reciproca. In genere Zuffi è affezionato alle misure rettangolari, come si conviene a un costruttore-decostruttore come lui, ma in questa rassegna lo vedo adottare anche degli schemi circolari, come delle ciambelle di salvataggio, in vista di un naufragio che potrebbe mettere a rischio quella sua ben calcolata simmetria di componenti. E poi c’è il salto verso una componente umana. L’artista cioè si persuade che quel suo senso di ordine, di disposizione schematica, ben ordinata, potrebbe anche essere affidato a gruppi di corpi umani, disposti a fare siepe, a infittirsi gli uni accanto agli altri. Oppure egli stesso si infila dentro la sua creazione, come per andare a misurarla di persona, verificarne i limiti di resistenza. Oppure si arresta nella contemplazione di una parete, che è come una fase massimale del suo lavoro, quando il costruire rinuncia ad ogni possibile interstizio e si costituisce in un muro compatto, magari con tanto di cartello che ne indica il limite insuperabile, il termine ultimo di un atto contemplativo. Col che evidentemente Zuuffi strizza l’occhio verso soluzioni concettuali, ma non vorrei che queste lo inducessero a rinunciare a quelle sue diposizioni architettoniche così ben orchestrate, coì efficaci nel loro vario collocarsi e andare ad ammobiliare lo spazio. Credo che il nostro artista non si debba mai allontanare troppo da una pronta verificabilità fornitagli da costrutti, oggetti saldi, ingombranti, ben disposti strategicamente nell’ambiente.
Italo Zuffi, MAMbo, fino al 30 maggio

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Caro Fabio, non credo che ci sia il ritorno di una linea analitica

Fabio Cavallucci è uno dei miei più cari e stimati amici, tanti sono i legami che mi stringono a lui. Ricorderò l’operazione parco di sculture all’aperto a Santa Sofia, Forlì. Luogo in cui si celebra anche il culto di Mattia Moreni, tema della laurea di Fabio. E quando è stato direttore del Pecci a Prato, non ha mancato di recuperare la mia mostra alla Biennale veneziana del ’72 dedicata al comportamento. Mi fa dunque piacere di apprendere che ora cura una mostra in una curiosa galleria di Bologna, di Enrico Astuni, dedicata a un programma perfino troppo avanzato, per una città pigra come il capoluogo felsineo. Forse volendo sorprendere la nostra attenzione, in uno scritto che accompagna la mostra ora in atto in quella sede, Fabio rispolvera un vecchio mito, quello dell’arte analitica che fu già la bandiera di combattimento di Filiberto Menna, dichiarandola ritornata di attualità. Col che risveglia una vecchia querelle che mi divise sempre da Menna, in quanto io ero e sono il difensore di un’arte sintetica. Per anni ci siamo giocati questa nostra rivalità endemica con garbo e ironia, mantenendo rapporti fraterni, e naturalmente vinse lui, io ho sempre perso ogni volta che mi sono impegnato in qualche duello, nel significato etimologico della parola, Ma contesto che l’arte analitica oggi sia di attualità, E’ vero che il trionfante “digitale” in Francia viene chiamato “numérique”, riconoscendogli una natura legata a formule matematiche, ma sappiamo bene che il digitale, o anche l’analogico, insomma il linguaggio elettronico, vale anche a registrare i mille aspetti della performance, arte sintetica come non si può di più, in quanto cumula in sé ogni aspetto sensoriale. Del resto, scorrendo la lista degli artisti presenti nella mostra Astuni, non è che ci siano i Castellani e Spalletti o altri tra quelli che sarebbero i più indicati ad attestare il il ritorno di una linea analitica. Ci trovo Paolini, caso mai capofila della mia ipotesi di una rivisitazione del museo, e poi Cattelan, che si vale di ogni mezzo per snocciolare le sue eleganti freddure, un ritorno dello spirito barocco in salsa attuale. E c’è perfino Tomàs Saraceno, magnifico campione di un’arte ambientale, dove mille lacci solcano e intrigano lo spazio, L’analisi insomma in questa rassegna non è proprio di casa, come spero non sarà neppure un’ospite favorita nei generosi progetti che l’intrepido Fabio sta ora concependo e di cui mi dà solleticanti notizie.

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L’insuperabile ballletto di cui è capace Guido Reni

“Perseverare diabolicum”, dice un ben noto proverbio, che credo si adatti all’idea perversa della romana Galleria Borghese, già piena come un uovo di capolavori, che pretende di volervi ficcare dentro a forza qualche omaggio a grandi artisti del passato e del presente. Credo che sia solo per consentire al direttore del momento di entrare nell’agone del mostrismo, mentre rassegne di questa natura troverebbero una collocazione più opportuna in altri spazi romani, magari al momento disoccupati. Però, scorrendo gli eventi espositivi annunciati come in arrivo in quella sede impropria, mi si è imposto all’occhio un capolavoro di Guido Reni, Atakanta e Ippomene in arrivo, non ho capito se nella versione di Capodimonte o del Prado, ma poco cambia, per una valutazione sommaria di quel capolavoro. Che conferma quell’attributo di “divin Guide” che i Francesi gli hanno attribuito, vedendo in lui, più che nel Caravaggio e compagni, il degno campione da porre in congiunzione col “gran siècje”, di Poussin, di Descartes, di Racine. E beninteso subito dietro di lui viene il Domenichino, che ho più volte presentato proprio come l’anticipatore di Poussin. Tutto questo per rettificare la stima spropositata che Roberto Longhi col suo seguito hanno dedicato al Caravaggio, grandissimo, sì, ma nello stesso tempo scomodo, e da accantonare, verso la metà del Seicento. Del resto si erano pure accorti caravaggisti della prima ora, come il nostro Guercino e perfino lo Spagnoletto, Jusepe Ribera, che era ora di tornare a coltivare una lezione di eleganza pausata, ritmica, di cui appunto il divino Guido è stato maestro, come dimostrano le due versioni di questo tema. Se le figure caravaggesche, tranne che nel magico e misterioso primo periodo, affondano nelle tenebre del dramma, della tragedia, le figure di Reni balzano in primo piano, alla ribalta, dove intessono i loro balletti, pieni di grazia, disinvoltura, molle atletismo. Come in questo dipinto, che è una danza sublime di braccia e gambe, protese a tastare lo spazio, a cercarvi un equilibrio arrischiato, chiedendo che proprio le luci della ribalta, ovvero una pittura candida, piena di luce, assecondi quelle elastiche architetture anatomiche, gli dia rilievo, riesca a distaccarle dagli sfondi, invece di immergervele e quasi seppellirle, come vorrebbe la lezione caravaggesca. Nell’occasione non posso fare a meno di ricordare i meriti dell’operazione condotta proprio a Bologna da Cesare Gnudi, e volta a riscattare Guido dal giudizio sommario, degradante, limitativo, che pure era stato pronunciati da un suo stesso maestro, da Ludovico Ragghianti, vittime dei pregiudizi del moderno ad ogni costo, avversi ai valori della grazia, del bello, del senso della misura. Del resto, in questa sottovalutazione Ragghianti non faceva che allinearsi al pur inviso Longhi, che però, di fronte alla mossa a sorpresa messa in atto da Gnudi, a casa sua, in quanto cattedratico proprio a Bologna, aveva dovuto fare buon viso a un gioco non troppo amato, ammettendo, in riferimento alle Biennali dedicate al club dei Carracci, di ritrovare anche in loro qualche traccia dell’amato naturalismo. Di cui certo il Reni non era fonte primaria. Per lui, ci volevano le riflessioni del postmoderno, per ridargli rilancio, una nuova attualità.
Guido Reni a Roma, Galleria Borghese, dal 9 febbraio al 22 maggio, a cura di Francesca Cappelletti.

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Claudia Losi, un sogno tra candide lenzuola

L’occasione migliore di parlare di Claudia Losi (1971) l’ho avuta quando, con idea alquanto peregrina, nel 2005, mi era venuto in mente di celebrare la nascita della mazziniana “Giovine Italia” con una mostra, il cui fine era di raccogliere il fior da fiore della sperimentazione artistica in Italia in quel momento, vincendo l’allarme degli invitati che mi dicevano di non sapere nulla di quell’evento, ma io li rincuoravo dicendo che per parte mia era appena un pretesto per operare una selezione dei migliori. E tra questi c’era appunto la Losi, che ora espone in un museo di Gerusalemme. Il medio oriente le si addice, perché la sua arte si basa sullo sfruttamento di risorse tissulari, come si conviene a una cultura dalle radici pastorali, nascente da lunghe attività muliebri rivolte a tessere in vari modi. Anche dalla nostra Losi escono, in prima battuta, candidi panni che ricadono sul pavimento, ma quelle superfici immacolate si prestano subito a ricevere ricami, anche in quelle forme ”novantiche” che sono i tatuaggi. A questo fine, oltre alle lenzuola o a formazioni comunque tessili, possono servire anche le superfici di mani e di braccia, che la Losi ostenta fieramente, come opere d’arte inoculate nella sua stessa pelle, nel corpo, quasi come imprese delicate di Body Art. Oppure, ritornando all’ora zero delle superfici intonse, queste possono subire stringimenti, contorcimenti, al modo di una massaia che, se avesse per le mani della pasta morbida e plastica, ne ricaverebbe agnolotti o tortelli, o se vogliamo restare in un ambito più prezioso, parliamo di ricami a punto d’ape o di vespa. Una volta queste cure erano finalizzate a produrre la dote di qualche giovane sposa di nobile censo, ora l’artista se le fa per se stessa, o per stupire, convincere, affascinare il pubblico delle sue mostre, Inutile dire che anche il colore asseconda queste varie caratteristiche, ma forse non si dovrebbe parlare di colore, dato che, per coerenza con la natura stessa di questi materiali di base, l’artista preferisce i bianchi, o certi azzurrini slavati, quasi respingendo lontano da sé la tentazione, la corruttela delle tinte troppo legate alla materialità delle cose, inseguendo invece un sogno di purezza, di candore illimitato. Il monocromo, anzi, l’acromo sono tra i caratteri di questo esercizio, però compensati dal pur minimo spessore che accompagna le distese dei tessuti, in un ben distribuito gioco tra l’apparire e lo sparire, affrettandosi a rientrare in una dimensione di assenza e di silenzio.
Claudia Losi, Gerusalemme, Hansen House, fino al 26 dicembre.

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